giovedì 10 luglio 2025

Chi, cosa e quando

 

Richard Oelze - L’attesa, 1935-36 - Olio su tela 81,6 cm x 106,6 cm - The Museum of Modern Art, New York

Un gruppo di persone ben vestite, sembrerebbe la rappresentazione della borghesia, rivolgono lo sguardo in una direzione, ad eccezione del secondo uomo da sinistra, che guarda dalla parte opposta, e la donna davanti a lui, che sembra persa nei suoi pensieri, tutti sono intenti ad osservare qualcosa che non riusciamo ad identificare.

Il dipinto, realizzato con le sfumature di un unico colore, trasmette un’atmosfera cupa, quasi asfissiante, in un prato dai confini indefiniti ma al contempo riconoscibili, queste persone volgono lo sguardo verso il cielo coperto di nuvole, l’aspetto cromatico ci condiziona tanto da pensare che non stanno guardando qualcosa ma stanno aspettando.

D’altro canto il titolo non lascia spazio ad equivoci, la scena rappresenta l’attesa, ma cosa stanno attendendo?

Oelze è tedesco e l’anno in cui viene realizzato il dipinto (1936) potrebbe farci pensare ad una popolazione in attesa di eventi di cui allora non si conoscevano gli sviluppi, ma l'arte va "vista" anche a posteriori, da qui possiamo giungere a scontate conclusioni.

Le influenze artistiche invece aprono a nuovi orizzonti, infatti, pur non avendo aderito ufficialmente al movimento surrealista, le frequentazioni con Ernst, Tzara, Dalì e Breton non possono non aver lasciato tracce.

Spinti alla curiosità dal titolo, vorremmo sapere chi o cosa stavano aspettando queste persone, nessuno ce lo dice, non resta altro da fare che dare vita a supposizioni, tenendo presente che a qualsiasi conclusione possiamo giungere è il nostro vissuto a tracciare la via, è difficile fare supposizioni liberi dalle nostre esperienze.

lunedì 30 giugno 2025

Oltre gli orizzonti conosciuti

Nel maggio scorso ha visto la luce un opera musicale che entra di diritto nel novero dei capolavori di arte contemporanea.

Copertina dell'album

Una decina di anni fa Michele Vallisneri, fisico italo americano, propone a Giovanni Amighetti, musicista emiliano, un progetto tanto folle e visionario quanto geniale.

Vallisneri è ordinario di fisica gravitazionale, la tesi del dottorato su "Modellazione e rilevazione di onde gravitazionali da oggetti stellari compatti" è realizzata sotto la supervisione di Kip Thorne (premio Nobel per la scoperta delle onde gravitazionali).

La proposta di Vallisneri è legata proprio alla visione contemporanea del cosmo, la ricerca di nuove forme nello spazio, una visione che va al di là delle semplici osservazioni avvenute fino a poco tempo fa, le onde gravitazionali, i buchi neri, l’attrazione delle stelle verso i pianeti che le accompagnano.

I pianeti del nostro sistema ma soprattutto quelli che si muovono attorno ad altri “soli”, i cosiddetti esopianeti, la ricerca si basa sul “Paradosso di Fermi”, che da il titolo al lavoro che sta per nascere.

Se esistono miliardi di stelle e queste hanno quasi sicuramente almeno un pianeta che "vive" nella loro orbita, quanti pianeti esistono nell’universo? Miliardi di miliardi, è la risposta, e se anche una minuscola percentuale di questi pianeti fosse simile alla terra (se non altro per la composizione che ipotizzerebbe una, anche se elementare, forma di vita, quante possibilità ci sono che esistano altre forma di vita?

Risposta: Molte! ma allora perché finora non abbiamo incontrato nessuno?

Il sogno dei viaggi interstellari, la fluttuazione attraverso i “corpi” che costituiscono l’universo, siano essi conosciuti o in attesa di essere scoperti.

Ad Amighetti si unisce David Rhodes, grande musicista noto per essere, da quasi mezzo secolo, il chitarrista di Peter Gabriel, per aver collaborato con Franco Battiato e Kate Bush, autore di colonne sonore (chi non ricorda La gabbianella e il gatto?) Il gruppo si completa con il collettivo “E-Wired Empaty”.

Il risultato è “The Fermi Paradox”, un concept album composto da nove brani dove l’ascoltatore viaggia nello spazio a bordo della musica.

Destino, Mare di stelle, Atmosfera positiva, Cintura di asteroidi (brano che propongo) sono alcuni dei titolo dei brani presenti nell’album.

Musicalità complesse, suoni lontani dalla musica commerciale, un’esperienza unica per chi desidera viaggiare oltre la propria zona di conforto.

Dieci anni per dare vita ad un lavoro complicato, Rhodes (chitarra elettrica e voce) Amighetti (Sintetizzatori) Roger Ludvigsen (chitarre) e Paolo Vinaccia alla batteria (scomparso nel 2019) fanno parte del nucleo iniziale, a cui si sono aggiunti negli anni Roberto Gualdi alla batteria, Sidiki Camara alle percussioni, Jeff Collins al sax, Faris Amine voce e chitarra, Moreno Conficconi al clarinetto, Valerio Combass e Pier Bernardi al basso.

A seguire propongo proprio “Asteroid Belt”, brano che forse più degli altri mi permette un’immersione multisensoriale nel profondo dello spazio infinito. Sulle varie piattaforme musicali si possono tranquillamente trovare gli altri pezzi di questo impegnativo ma fantastico capolavoro.


venerdì 20 giugno 2025

Per soldi e per amore (dell'arte)

Il precedente post, dedicato all’istallazione di Maurizio Cattelan a Bergamo, mi ha dato uno spunto di riflessione (suggerimento offertomi dagli amici Franco Alberto e Pia, che grazie anche ad alcune divergenze di vedute sono fonte di idee interessanti) ha messo in luce la percezione della gente riguardo alle opere d’arte contemporanee.

Tiziano Vecellio – Amor sacro e amor profano, 1515 – Olio su tela cm 118 x 278 – Galleria Borghese, Roma


Di fronte ad un dipinto, ad una scultura o ad altre espressioni artistiche che non siano pittura figurativa, spesso la reazione porta alla conclusione che il fine ultimo sia quello che porta al guadagno e/o alla fama, insomma se qualcuno realizza un’opera poco comprensibile nell’immediato lo fa per soldi o per farsi notare.

Non è mia intenzione negare questa possibilità anzi, posso anche condividerla ma c’è differenza tra le opere contemporanee e quelle del passato?

Grandi artisti come Tiziano non lavoravano certo gratuitamente, si facevano pagare profumatamente tanto che non tutte le persone, anche benestanti, potevano permettersi i loro dipinti.

Cosa dire del tanto celebrato, anche da chi non ha il minimo interesse per l’arte, Michelangelo Buonarroti che, chiamato da Papa Giulio II per affrescare la volta della Cappella Sistina, si lasciò convincere solo dopo l’offerta di un lauto compenso, infatti inizialmente aveva rifiutato la commissione in quanto: “sono uno scultore, non sono un pittore”.

Mentre riguardo a Tiziano e Michelangelo a nessuno viene in mente che abbiano realizzato i loro capolavori per fama o denaro, succede esattamente il contrario se i dipinti o le istallazioni sono realizzate da artisti del nostro tempo.

Siamo tutti affascinati dall’idea che il nostro lavoro venga apprezzato da più gente possibile, l’ego umano è smisurato, cosi come tutti cerchiamo di monetizzare il nostro lavoro, ma questo non impedisce che dietro gli sforzi ci sia qualcosa in più.

L’arte andrebbe “vista” con lo sguardo più ampio possibile, tralasciando quei retro pensieri che oggi vanno tanto di moda, vedere di ogni cosa solo il lato oscuro, considerandolo il solo lato possibile.

Gli artisti da sempre hanno legato le loro opere al profitto ma un appassionato deve andare oltre, a me non interessa se Picasso ha guadagnato un sacco di soldi vendendo i suoi quadri, ne tantomeno se i dipinti di Cezanne vengono battuti all’asta per milioni di euro, sono più attratto dai concetti che questi pittori hanno espresso, sono interessato dalle dinamiche emerse dalle loro opere, dinamiche che hanno influenzato l’arte a venire, ma non solo l’aspetto artistico, anche, e soprattutto, quello sociale e culturale.

Il presente è e sarà sempre figlio del passato e genesi del futuro.

domenica 8 giugno 2025

Abbandoniamo la superficie per comprendere le profondità

All’alba del 6 giugno, al centro della Rotonda dei Mille che ospita il monumento di Giuseppe Garibaldi a Bergamo, gli abitanti della città lombarda hanno avuto una sorpresa (piacevole o meno dipende dai punti di vista).



Sulle spalle della statua del “Re dei due mondi” appare un bambino che con la mano destra mima una pistola, dopo i primi attimi di smarrimento ecco svelato l’arcano: si tratta di un’installazione di Maurizio Cattelan.

Come ogni opera realizzata dall’artista padovano anche questa suscita immediatamente reazioni differenti, anche se soprattutto negative, alla mente tornano i bambini impiccati apparsi a Milano nel 2004 (ne ho parlato qui)

L’installazione inaugura la mostra diffusa “Season” che dal 7 giugno al 26 ottobre sarà visibile nella città “Dei Mille”.

Cos’è che scatena il fastidio di molti? Un bambino che “spara”? Il gesto dissacratorio che tocca uno dei simboli cittadini? O lo sdegno per qualsiasi cosa non sia comprensibile nell’immediato?

Non sarò certo io a scandalizzarmi per un’opera d’arte anzi, sono proprio queste occasioni, dove al primo sguardo non si hanno le giuste coordinate, in cui possiamo iniziare ad esplorare gli anfratti di una visione, nostra e altrui, che rimangono in ombra.

Chi o cosa rappresenta il bambino “armato” a cavalcioni sul monumento di una figura simbolo della città ma non solo? La difesa o l’aggressione delle nuove generazioni a tutto ciò che è il passato, oppure il bambino che impugna un’arma, anche solo metaforica, ci riporta ai tristi fatti di cronaca che denunciano un degrado morale in cui sono proprio i bambini a farne le spese (qui l’accostamento all’opera di Milano pare evidente).

Naturalmente non possiamo escludere l’aspetto giocoso ma sembra più legato alle generazioni passate, semmai è il tentativo di emergere, con la forza, in un mondo che non sembra conoscere alternative alla forza stessa.

Dietro alle opere di Cattelan c’è sempre un messaggio anche se fatica ad emergere, la totale assenza di riferimenti da parte dell’autore ingarbuglia ulteriormente i tentativi di darne una definizione logica, in fondo Cattelan ha sempre fatto della provocazione un suo cavallo di battaglia, ma solo se ci si ferma alla superficie non si vede altro. Dai “bambini” già citati al dito medio in Piazza Affari, dal papa colpito da un meteorite fino alla celeberrima “banana” (curioso che le opere siano conosciute con nomi differenti dal titolo scelto dall’artista) apparentemente sembra che l’unico obbiettivo sia provocare ma in ogni singolo caso dietro c’è un preciso percorso, artistico, sociale e culturale.

Come richiesto a qualsiasi un’opera d’arte anche questa fa discutere, se riuscisse anche a far riflettere …

venerdì 30 maggio 2025

... è la gente che se ne frega.

Come due rotaie, legate dalle traversine, questa canzone è a tutti gli effetti un “binario” narrativo.

Foto dal web

Venezia, resa celebre dalla versione di Francesco Guccini, debutta nel 1979 all’interno dell’album Il sogno di alice del gruppo genovese Assemblea musicale teatrale di cui fa parte Gian Piero Alloisio, autore del brano.

Il gruppo collabora da qualche anno con Francesco Guccini che inserirà la sua versione, leggermente modificata, nel 1981 nell’album Metropolis.

Come dicevamo il testo viaggia su due linee parallele, la tragica storia di Stefania che a soli vent’anni muore di parto in un “grande ospedale” (Alloisio scrive la canzone dopo la morte di una giovane cugina deceduta proprio mentre stava partorendo) si affianca alla decadenza della città lagunare, entrambe le cose seguono la strada dettata da un destino apparentemente segnato, l’indifferenza della gente.

Indifferenza di un ospedale che tratta i pazienti come una “cosa” che va e che viene, merce non persone, indifferenza di chi abbandona a sé stessa la giovane donna che muore “da sola” lontana da chi avrebbe dovuto sostenerla.

Ma l’indifferenza è protagonista anche nella decadenza di Venezia, trasformata in un oggetto di consumo, dove tutto è superficiale, da utilizzare e poi buttare quando non ci diverte più “Venezia è un albergo, San Marco è anche il nome di una pizzeria, la gondola costa, la gondola è solo un bel giro di giostra …”.

Il brano non lascia spazio alla minima dose di speranza, è una constatazione di un dato di fatto, la mercificazione culturale, dei sentimenti e delle emozioni, tutto ha un prezzo, chi può permetterselo ne fa uso e poi getta tutto, magari nemmeno differenziando e perché no, scaricando l’umanità nelle acque della laguna.

A seguire il testo della versione di Guccini e le due interpretazioni


Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare
La dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi, Venezia, la vende ai turisti
Che cercano in mezzo alla gente l'Europa o l'Oriente,
Che guardano alzarsi alla sera il fumo, o la rabbia, di Porto Marghera

Stefania era bella, Stefania non stava mai male
È morta di parto gridando in un letto sudato d'un grande ospedale
Aveva vent'anni, un marito, e l'anello nel dito
Mi han detto confusi i parenti che quasi il respiro inciampava nei denti

Venezia è un albergo, San Marco è senz'altro anche il nome di una pizzeria
La gondola costa, la gondola è solo un bel giro di giostra
Stefania d'estate giocava con me nelle vuote domeniche d'ozio
Mia madre parlava, sua madre vendeva Venezia in negozio

Venezia è anche un sogno, di quelli che puoi comperare
Però non ti puoi risvegliare con l'acqua alla gola, e un dolore a livello del mare
Il Doge ha cambiato di casa e per mille finestre
C'è solo il vagito di un bimbo che è nato, c'è solo la sirena di Mestre

Stefania affondando, Stefania ha lasciato qualcosa
Novella Duemila e una rosa sul suo comodino, Stefania ha lasciato un bambino
Non so se ai parenti gli ha fatto davvero del male
Vederla morire ammazzata, morire da sola, in un grande ospedale

Venezia è un imbroglio che riempie la testa soltanto di fatalità
Del resto del mondo non sai più una sega, Venezia è la gente che se ne frega
Stefania è un bambino, comprare o smerciare Venezia sarà il suo destino
Può darsi che un giorno saremo contenti di esserne solo lontani parenti.



martedì 20 maggio 2025

Il genio non ha confini

28 giugno 2009, Stephen Hawking, all’interno di una sala dell’università di Cambridge, siede in attesa degli invitati ad un party che lo stesso fisico aveva organizzato, nessuno si presenta, è a questo punto che Hawking decide di spedire gli inviti ...

Immagine dal web

Evidentemente in questa narrazione c’è qualcosa che non quadra, a provare chiarire l’enigma ci pensano le parole scritte sugli inviti stessi: “Ecco l’invito che ti fornisce le coordinate esatte nel tempo e nello spazio per partecipare alla festa. Sei cordialmente invitato ad un ricevimento per i Viaggiatori del tempo. Spero che copie di esso, in una forma o nell’altra, sopravvivano per molte migliaia di anni. Forse qualcuno che vive nel futuro troverà le informazioni e userà una macchina del tempo o un warmhole per venire alla mia festa, dimostrando che viaggiare nel tempo un giorno sarà possibile”.

Il geniale matematico inglese dunque ha potuto constatare che in futuro non ve certezza che si possa viaggiare nel tempo. Questo però non dice il contrario, possono essere molte le cause che hanno impedito ai visitatori di giungere al party quel giorno, gli inviti potrebbero essere scomparsi prima della costruzione di un “veicolo” che conduca indietro nel tempo, oppure che le macchine del tempo possano trasportare l’uomo non più indietro della data di costruzione delle stesse, naturalmente è valida la tesi che viaggiare nel tempo sia impossibile.

Ma quest’idea, per assurda che possa apparire, è semplicemente geniale, se al posto di Hawking ci fosse stato qualcuno con lo scopo di mettere in scena una performance, potremmo definire il tutto un’opera d’arte?

Possiamo condurre questo avvenimento al movimento dadaista? Chi mi conosce sa già quale sia la mia risposta: assolutamente si!

L’organizzazione di questo party privato, dove tutti sono invitati ma a posteriori, è stata inserita in un contesto scientifico (o fantascientifico, dipende dai punti di vista) se lo togliamo da quella cornice e lo inseriamo in un ambito museale non è possibile non prendere in considerazione la realizzazione di un’opera di stampo artistico.

Inconsapevolmente, o forse no, Hawking realizza un capolavoro concettuale che, in quanto strettamente legato alla fisica, è ignorato dai più.

Un’opera, se realizzata per scopi differenti, viene sottratta dal suo contesto naturale e inserita in una sfera “artistica” diventa arte, a chi ci rimanda tutto questo?

sabato 10 maggio 2025

La materia, il verbo e la poesia

Passeggiando sul lungolago di Salò, deliziosa località sul lago di Garda, ci si imbatte in una scultura, pressoché ignorata da tutti.



Si tratta del mezzobusto in bronzo che ritrae Gasparo Bertolotti, noto come Gasparo da Salò, maestro liutaio ritenuto, da alcune fonti, l’inventore del violino.

L’opera in bronzo realizzata da Angiolino Aime è la copia esatta di quella in marmo di Carrara, di Angelo Zanelli, che si trova nel palazzo municipale del comune bresciano.

Contrariamente a molti monumenti celebrativi che rappresentano il soggetto principale in posa maestosa, Gasparo si presenta nell’atto di estrarre o conficcare il violino nel petto, la posa e solenne e poetica, come se l’artista e la sua creatura fossero tutt’uno.

A rendere ancor più magica l’apparizione sono le parole di Gabriele d’Annunzio incise sul piedistallo che sorregge la scultura.

“… non si sa se stia aprendo

 il petto per trarne il violino

 o se stia aprendo il violino

 per mettervi il cuore.”

Questa frase porta ad altezze vertiginose la poetica dell’opera, l’uno parte dell’altro, indivisibili.

Come dicevo non sono in molti a fermarsi davanti alla scultura (a debita distanza mi sono fermato per verificarlo e nonostante la marea di gente che le transitava davanti, nessuno pare si sia accorto della sua presenza) ed è un peccato perché per un attimo ci si isola dal frastuono che ci circonda immersi nella purezza della poesia.

mercoledì 30 aprile 2025

Accesso, uscita, passaggio e trasformazione

Se cercate sul web “Porta di Lampedusa” troverete ovunque questa descrizione: “Porta di Lampedusa o Porta d’Europa, un monumento alla memoria dei migranti che hanno perso la vita in mare”.


Mimmo Paladino, autore dell’opera realizzata nel 2008 e posizionata sulla costa di Lampedusa nel punto più a sud dell’isola, e di conseguenza d’Europa, ha sempre sostenuto che non si tratta di un monumento m di un “oggetto” che porta con se molteplici significati.

Alta 5 metri e larga 3 è realizzata in ferro zincato per la struttura e ceramica refrattaria per il rivestimento, la descrizione di quest’ultimo materiale ha due motivazioni, quella che vuole il materiale riflettente che rimanda al largo la luce del sole di giorno e quella della luna di notte, un faro per illuminare la strada a chi più ne ha bisogno.

Paladino aggiunge che la terracotta è stata usata per la sua “mortalità”, infatti la ceramica nel tempo tenderà a deteriorarsi fino a scomparire, un po’ come la natura umana.

Dicevamo che l’artista beneventano ci tiene a sottolineare che non si tratta di un monumento ma bensì di un portale sempre aperto per chi ha bisogno di un rifugio sicuro (in entrata) e per tutti quelli che vogliono aprirsi al mondo.

Un omaggio alle migliaia di vittime, spesso ignorate, che quotidianamente soccombono nelle acque del Mediterraneo ma anche una speranza di un’apertura nelle coscienze offuscate da un vivere per sé stessi.

lunedì 21 aprile 2025

La percezione e gli equilibri instabili

Qualche anno fa, in occasione di una visita ad una mostra itinerante dedicata alla follia, mi sono imbattuto in un dipinto che si inseriva benissimo nel contesto della manifestazione, il quadro ci mostra due persone una seduta, l’altra appoggiata allo stipite di quella che sembra una porta d’accesso ad una dimensione “altra”, l’entrata era solo una delle tante che si susseguono costruendo cosi un corridoio quasi infinito, il tema della mostra, la follia o la pazzia, ci indirizza verso una direzione precisa, quella del viaggio della mente.



Il dipinto non è certo un’opera di grande valore tecnico, ho visto decisamente di meglio ma c’è in giro anche di peggio.

Al di là della sensazione di disagio, di un claustrofobico fastidio, la tela non ci dice molto, non entra nell’anima dell’osservatore, si limita a dirci qualcosa ma lo fa senza convinzione.

Superato il primo approccio visivo vado con lo sguardo sulla targhetta che descrive l’opera, il titolo è “Untitled”, l’autore Adolf Hitler.

Inutile dire che la percezione del dipinto non può essere la stessa se lo accostiamo ad un nome che è l’incarnazione della pazzia nella sua versione più tragica, conoscendo il nome del pittore non muta il giudizio estetico e tecnico, il concetto che sta dietro (o dentro) al quadro prende un’altra forma.


Il cortile della vecchia residenza di Monaco, 1907

Oltre a quel quadro ne propongo un altro dello stesso autore, un acquerello dai toni meno opprimenti, un’opera che se realizzata da qualcun altro  potremmo anche definirla gradevole. Ma sapendo che anche questo paesaggio è opera di Hitler le ombre sulla parete della costruzione prendono forma trasformandosi in qualcosa di malvagio?

Quanto siamo condizionati dal nome di un artista? Quante volte davanti ad una tela la nostra interpretazione e il nostro apprezzamento non muta, anche solo in minima parte, nell’istante in cui conosciamo l’autore?

Un grande artista innalza un’opera in quanto siamo propensi ad approfondire il perché è stata realizzata in quel modo, non dico che cambiamo opinione ma le conoscenze di chi la realizza ne moltiplica i punti di osservazione.

Nel caso specifico delle opere di Hitler è praticamente impossibile scindere l’oggetto dal suo creatore, cosi come è impossibile separare l’artista dall’uomo, al punto che in moltissimi hanno chiesto la rimozione del dipinto in quanto realizzato da tale essere e non per ciò che voleva rappresentare.

Lo stesso curatore della mostra, Vittorio Sgarbi, disse che il quadro era un’autentica porcheria (ha usato altri termini ma il senso è quello) ma che ha deciso di inserirlo in quanto lo steso pittore era parte integrante della narrazione della mostra.

Questo dimostra che non solo l’uomo dietro l’artista, e a sua volta dietro il quadro, riesce ad influenzare la percezione ma addirittura è l’aspetto umano a prendere il sopravvento.

Non so se sia più o meno giusto ma la tela non era esposta perché rappresentava la follia, era parte della mostra in quanto il suo autore ne ere un tragico e sconvolgente esempio.

giovedì 10 aprile 2025

Da che "lato" si guarda un'opera?

1967, l’artista genovese Giulio Paolini scatta una fotografia al dipinto di Lorenzo Lotto, “Ritratto di giovane”, esposto alla Galleria degli Uffizi a Firenze.

Da sinistra a destra: Lorenzo Lotto, Ritratto di giovane - Giulio Paolini, Giovane che guarda Lorenzo Lotto

Lo scatto riprende il dipinto del pittore veneziano e lo riproduce mantenendo le misure originali.

Decide cosi di esporre la fotografia con un titolo preciso “Giovane che guarda Lorenzo Lotto”.

Emerge cosi, con estrema dirompenza, il tema del punto di vista, tema che lo stesso Paolini elaborerà ulteriormente nel 1981 sostituendo gli occhi del giovane con i propri, a questo punto non solo abbiamo il ribaltamento dl principio soggetto-opera-artista ma è l’artista che quasi cinque secoli dopo utilizza il dipinto per trasportarsi indietro nel tempo e porsi di fronte al Lotto.

Chi guarda chi, lo stesso Paolini ha sempre sostenuto che l’opera non guarda l’osservatore, non è minimamente interessata a ciò che pensiamo, a quello che intuiamo, ovunque la nostra interpretazione sia diretta al quadro non può fregare di meno.

Siamo sempre noi dunque, autori e fruitori dell’opera d’arte, alla continua ricerca di un senso (se vogliamo a tutti i costi  darne uno) o di un percorso, spesso puramente filosofico, che ci conduca in un luogo che nemmeno immaginiamo esista, l’idea che la destinazione non sia totalmente preclusa basta e avanza per cercarne l’ubicazione.

Se ci lasciamo influenzare dal concetto di Paolini possiamo andare oltre, il giovane guarda Lorenzo Lotto, e questo è oggettivo, ma potrebbe anche concentrarsi sull’osservatore che ne ammira le fattezze.

E se la fotografia si fosse intitolata “Giovane, ritratto da Lorenzo Lotto, che guarda il fotografo”?

domenica 30 marzo 2025

Firenze, destino triste (per l'intera umanirtà)

“Firenze, capitale (o culla) della bellezza”, quante volte abbiamo sentito queste parole associate al capoluogo toscano.

Una mia recente visita mi ha “detto” altro, la percentuale di amici e conoscenti che l’hanno visitata e che la trovano bella, se non meravigliosa, si avvicina al 99%, siccome faccio mia la frase (difficilmente attribuibile) “se piace a più del 30 % della gente non è arte”, ecco svelato l’arcano.


Scherzi a parte, tra i numerosi luoghi d’arte e bellezza, che innegabilmente sono presenti, è la decadenza culturale della nostra società ad emergere prepotentemente.

L’immagine in alto ci mostra la rappresentazione delle quattro “Arti” (da sinistra, scultura, pittura, musica e architettura) che fanno da cornice ad una frase emblematica: “L’antico centro della città da secolare squallore a vita nuova restituito”, queste parole sembrano rappresentare l'esatto contrario di ciò che sta succedendo oggi, una sorta di via del ritorno, l’inversione di marcia sulla via di ciò che le arti volevano offrire.

Firenze, suo malgrado, è lo specchio della decadenza della società moderna, di una cultura basata sull’apparenza, sul consumo a “perdere”, sull’assenza di memoria, sulla fugacità dell’approfondimento, sulla morte del pensiero critico.

Da cosa percepisco tutto questo? Da molte piccole cose che spesso passano inosservate.

Dalle code (evitabili nel 2025) davanti a chiese e musei, al comportamento della gente all’interno di queste strutture. Ma anche la città stessa è l’emblema di una decadenza figlia dell’accidia amministrativa che si culla sugli allori di un lontano passato, il rinascimento, termine che emerge ovunque, è scomparso da tempo.

Le strutture urbane sono decadenti, marciapiedi e strade dissestati (se provate a far correre i vostri bagagli sulle consuete “rotelline” vi accorgete che tutto fila liscio al massimo per due o tre metri) ma a chi importa se l’afflusso è costante?

Firenze però non è un’eccezione, è la regola che riflette l’intero paese, la società, ogni individuo che la compone (con le dovute eccezioni) tutto cade, tutto regredisce.

Due esempi di ciò che ipotizzo, nella Galleria degli Uffizi, davanti alla Primavera del Botticelli, una ressa incredibile ne impedisce la visione, ognuno degli astanti ha un telefonino in mano, tutti scattano fotografie pochi osservano con attenzione l’opera, più della metà da le spalle al dipinto, il protagonista dello scatto non è certo il quadro. Il culmine è raggiunto quando una ragazzina, giunta al cospetto della celebre tela, si toglie la giacca e, seminuda si mette in posa mentre le due amiche scattano foto a ripetizione.

L’atro esempio di decadenza del pensiero lo troviamo davanti ad un’opera di Lorenzo Giannelli, a fianco della Basilica di San Lorenzo, svetta una scultura imponente, (l’immagine seguente ce la mostra) ai piedi dell’opera troviamo la descrizione, a fianco di quest’ultima un rudimentale cartello scritto a mano sollecita, con un maldestro tentativo di essere spiritoso, un intervento che metta: “un paio di mutande” atte a ripristinare la decenza, detto in un periodo storico dove la decenza è praticamente scomparsa aumenta l’effetto comico (si ride per non fare il contrario).

La mia non è una critica, positiva o negativa dell'opera, il concetto è un altro.


Chiudo affidandomi alla speranza di Antonio Paolucci che qualche anno fa diceva: “questo è semplicemente un momento di oscuramento, durerà un secolo o forse due, poi, in qualche parte del mondo nascerà un nuovo linguaggio, un nuovo rinascimento artistico, sociale e culturale”.

giovedì 20 marzo 2025

Visioni soggettive

“L’universo in realtà è buio! Le stelle non brillano, non c’è alcuna luce, il sole non è luminoso, la luna non riflette i suoi raggi, tutto è nero. Perché?

Perché la luce esiste se ci sono degli occhi e un cervello capace di trasformare le onde elettromagnetiche in segnali luminosi, come fa appunto il cervello umano.

Le onde elettromagnetiche, di per sé, non generano luce, tutto è spaventosamente buio”.

(Piero Angela)

Vincenzo Galati – Città strana n.1 – Acrilico su tela di lino, cm 80 x 180 – Collezione privata

Il cosmo dunque si presenta, come lo vediamo, nella forma e nei colori che solo noi riusciamo a percepire, tutto questo vale naturalmente per ciò che osserviamo quotidianamente sul nostro piccolo pianeta, parte infinitesimale dell’universo.

Ma cosi come il sistema solare è una piccola tessera del mosaico universale, noi, in quanto esseri umani, presi singolarmente, siamo allo stesso modo una piccolissima parte dell’insieme dell’umanità.

In quanto soggetti unici e non replicabili abbiamo occhi e cervello che vedono in modo unico?

Lasciamo da parte la differenza tra specie animali, anche tra esseri umani ci sono delle piccole o grandi variazioni, nessuno probabilmente vede allo stesso identico modo di un’altra persona.

A questo punto viene da chiedersi quanto la visione differente influisca sulla percezione delle opere d’arte.

Naturalmente sono molti i fattori che ci portano ad apprezzare un dipinto, una scultura o una fotografia, l’aspetto puramente estetico, le conoscenze, il bagaglio culturale, la società in cui viviamo, i gusti personali, ecc.

Se a tutto ciò aggiungiamo una “visione”, e la conseguente elaborazioni di quello che riceviamo, diverse da chiunque altro, è possibile che influisca sulla differente valutazione rispetto ai giudizi altrui?

Sicuramente anche questa ipotesi va ad aggiungersi ai fattori soggettivi già menzionati, questo dovrebbe farci riflettere quando tendiamo ad emettere sentenze definitive, guardiamo e vediamo un’opera come nessun altro ha mai fatto, è solo uno degli infiniti angoli di osservazione, non ci resta che impegnarci cercando di capire quale sia la prospettiva da un altro angolo.

domenica 9 marzo 2025

Alla fine è sempre l'idea a prevalere.

“Sono stato in stretto contatto con artisti e con giocatori di scacchi e sono arrivato alla conclusione personale che mentre non tutti gli artisti sono giocatori, tutti i giocatori di scacchi sono artisti”. (M. Duchamp)

“La bellezza degli scacchi è più vicina a quella della poesia; i pezzi sono l’alfabeto stampato che dà una forma ai pensieri, e questi pensieri, pur formando un disegno visivo sulla scacchiera, esprimono una loro bellezza astrattamente, come una poesia”. (M. Duchamp)

Marcel Duchamp – Ritratto di giocatori di scacchi, 1911 – cm 108 x 101 - Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris

Marcel Duchamp ha sempre considerato il gioco degli scacchi, o perlomeno il senso dello stesso, una forma d’arte che fonde la profondità della poesia, della pittura e della scultura.

Gli scacchi come metafora dell’arte nella sua narrazione, i giocatori muovono i pezzi dando vita ad un “quadro”, sia dal punto di vista visivo sia da quello delle idee.

L'artista francese anticipa l’importanza del gesto del “dipingere”, che diverrà celebre qualche decennio più tardi, esaltando il “movimento” del pezzo sulla scacchiera, al punto da renderlo emozione, sensazione quasi fisica: ”piacere sensuale dell’esecuzione ideografica dell’immagine sulla scacchiera”.

A confermare tutto ciò c’è la dichiarazione dello stesso Duchamp che sottolinea come un pittore, se non è soddisfatto del suo dipinto, può cancellarlo e ricominciare da capo, cosi come un giocatore di scacchi può cancellare quello che si è fatto.

Il dipinto in alto rappresenta le due anime del pittore normanno, Ritratto di giocatori di scacchi è la sintesi del pensiero artistico del giovane Duchamp (allora vicino al cubismo prima di abbandonare il movimento e la pittura stessa per manifesta “ipocrisia”)

Qualche tempo fa ho parlato (qui) proprio della celebre immagine che vede Ducham davanti alla scacchiera pronto ad accettare la sfida di Eve Babiz in occasione dell’inaugurazione di una sua personale.

Se il “gioco” degli scacchi non è arte a prescindere, lo è nel momento in cui sulla scacchiera si “disegna” l’idea, d’altro canto se avviciniamo qualsiasi cosa al nome di Duchamp non può che essere cosi, l’idea rende uno scacchista un artista, non sempre un pittore lo è.  

venerdì 28 febbraio 2025

Liberiamoci dei nostri demoni (e paghiamone le conseguenze)

“Già da quando avevo 17 anni ero convinto che sarei diventato famoso. Pensavo a tutti i miei miti: Charlie Parker, Jimi Hendrix … Avevo una curiosità romantica di sapere come la gente ce l’aveva fatta.”

Jean Michel Basquiat

 

Jean Michel Basquiat – Autoritratto 1982 – Acrilico e pastello – Collezione privata


Ce l’ha fatta ha raggiungere il suo obbiettivo? La risposta non può che essere affermativa, il prezzo da pagare è stato alto, ne valeva la pena?

A questa seconda domanda può rispondere solo Basquiat, questo significa che la risposta non c’è.

Ma perché il pittore newyorkese è diventato uno dei simboli fondamentali dell’arte dell’ultimo mezzo secolo? Davanti alle sue opere spesso si pensa ad una deriva artistica contemporanea, ma di contemporaneo c’è ben poco, non certo per il concetto espresso ma dal tempo trascorso da allora.

Se un artista è riconosciuto come snodo basilare per un percorso culturale, dopo quasi cinquant’anni, come possiamo ignorarne il valore basandoci su ciò che ci limitiamo a vedere e, spesso, senza capirne il senso?

Jean Michel era figlio della cultura della discriminazione, è il simbolo di chi, con forza, determinazione e un poco di fortuna, può abbattere, o perlomeno aprire delle brecce, in quei muri sociali che l’umanità ha sempre costruito.

Ha pagato tutto ciò per un qualcosa che andava contro il sistema? Ha pagato per qualcosa che andava al di là delle proprie forze? Forse ne l’uno ne l’altro, semplicemente non aveva accanto qualcuno che lo riparasse dall’uragano emozionale che l’ha travolto.

Ma se avesse avuto vicino le persone giuste sarebbe stato in grado di riversare sulla tela tutti i suoi demoni?

Niente è per caso, a volte servono dei compromessi per sopravvivere, qualcuno li trova chiudendo i propri fantasmi in cassetti sigillati, altri aprono il vaso di Pandora lasciando fluire tutto ci che hanno dentro, ma questo presenta sempre il conto.

A noi il compito di fare in modo che tutto questo non vada perduto.


giovedì 20 febbraio 2025

L'arte è "negoziabile"? (Part. 3)

In una trasmissione televisiva, il cui scopo era quello di far luce sul lavoro delle gallerie d’arte e la crescente difficoltà che molte di loro hanno nel tenere aperti i battenti, sono incappato nell’ennesima stortura del mercato, o meglio, nell’errata direzione seguita da chi è parte del mercato dell'arte.

Immagine dal Web

Uno dei galleristi è ripreso mentre cerca di convincere l’acquirente di turno sulla bontà della merce in vendita.

Parlando di un’opera di Gerhard Richter ha sottolineato l’importanza di possedere un dipinto del pittore tedesco perché: “Richter è l’artista vivente con la più alta rivalutazione delle proprie opere”.

Questo mi ha portato indietro di qualche anno, ero entrato in una piccola galleria di un piccolo centro, non molto lontano da dove vivo, il proprietario, un ragazzotto stretto in un completo grigio, il cui scopo, non riuscito, era di farlo sembrare più professionale, non mi ha dato nemmeno il tempo di entrare che mi si è incollato addosso congratulandosi con me per essere arrivato nel momento giusto, avevo la fortuna e il privilegio di cogliere l’occasione della vita, acquistare un dipinto di un’artista, che non avevo mai sentito nominare (naturalmente la colpa è mia e comunque conoscere nuovi artisti è sempre una mia prerogativa) e che secondo lui (che ho scoperto in seguito essere figlio di un altro gallerista, il ché spiega molte cose) avrebbe moltiplicato il valore in un breve lasso di tempo.

In una galleria d’arte mi aspetto di poter dialogare e condividere nozioni sull’argomento artistico ma sono bastati alcuni accenni per capire che di arte il giovanotto non ne sapeva nulla, ho conosciuto gente non appassionata che ne sapeva di più.

I minuti trascorsi in quel luogo sono passati (lentamente) ascoltando teorie su quanto avessi guadagnato se compravo il tal quadro e l’avessi venduto da lì a un lustro, o quanto avrei potuto arricchirmi se portavo a casa altre opere rivendendole in seguito, tempo passato a parlare di acquisti, vendite, guadagni, investimenti ecc., nulla che riguardasse l’aspetto artistico, aspetto che al (poco o per niente) professionista era sconosciuto.

Qui torniamo all’individuo citato all’inizio, nelle gallerie il denaro è al centro della discussione, questo non ci scandalizza, anzi, lo scopo di questi negozi, perché una galleria d’arte altro non è che un negozio, è vendere, altrimenti sarebbero obbligati a chiudere, ma siccome l’arte è anche qualcosa che va oltre l’aspetto materiale, mi aspetto che se entro in un luogo dedicato ad essa emerga anche l’aspetto spirituale.

Molti sosterranno che il denaro è l’unica cosa che conta per il mercato, può darsi, non lamentiamoci però se, al netto dei super ricchi, si fatica a vendere a collezionisti dal livello (economico) più basso, e se, come lamentano in molti, la gente comune passando davanti ad una galleria si guarda bene dall’entrare, essere assaliti da venditori incompetenti non è il sogno di chi vuole acquistare emozioni.