martedì 31 dicembre 2019

"Riflessi" di fine anno


“Spesso i quadri se ne stanno là immobili, non parlano, muti, per me bisogna sempre andarli a stanare, sicuramente è una faccenda, in parte, di ignoranza, di consuetudine, di non averne visti abbastanza.


Quando li vado a stanare percorro lunghi sentieri con gente che mi guida, che mi porta, sentieri dentro di loro (i quadri), per come sono fatti, per come sono costruiti, ma in realtà, ad un certo punto, non basta neanche quello, sono sentieri molto lunghi per andare a prendere la loro bellezza e in parte, io ho questa impressione, diventano sentieri che non sono più dentro il quadro, non sono più sentieri dove lui è fatto in un certo modo, sono sentieri dove tu sei fatto in un certo modo, i dipinti sono specchi, nel caso migliore sono specchi e riflettono un qualcosa di cui noi non abbiamo un controllo completo.

Quello che cerchiamo nel cuore della loro bellezza in realtà è qualcosa che lo specchio restituisce e che noi non sappiamo di avere addosso … e si può camminare per lungo tempo"

(A. Baricco)



(nell'immagine :Raffaello Sanzio - Ritratto di donna (La velata), 1515-16
 olio su tela cm. 82 x 60,5
Galleria Palatina di palazzo Pitti, Firenze)



sabato 28 dicembre 2019

Una vita nell'arte, per l'arte, con l'arte, Joan Mirò


1917, poco più che ventenne dipinge un paesaggio tradizionale con una visione che di tradizionale ha poco o nulla, a ottant’anni “rappresenta” l’essenza della sua pittura, del suo essere energia artistica.

L’inizio e il compimento di un percorso che si snoda per sessant’anni dove, tra gli orrori e le rinascite di un periodo allucinato e allucinante, offre una visione alternativa, un linguaggio indipendente, uno sguardo al futuro senza rinnegare il presente.

In mezzo ai due dipinti sessant'anni di storia, l'evoluzione culturale che va al di la del pensiero di Mirò, il cammino di una società che sembra aver smarrito l'obbiettivo principale.

Il pittore spagnolo ci mostra che tutto può e deve mutare, senza il desiderio di un continuo cambiamento non abbiamo alternativa alcuna ad un lento ma costante "svanire".

Anche se ciò che ci aspetta appare incomprensibile non dobbiamo assestarci sulle più comode posizioni del "conosciuto" ma lasciarci cullare dai venti dell'inconcepibile.


Mirò, il sogno tragico, la ricerca del "nostro" sogno.



Joan Mirò, Prades: il villaggio, 1917
Olio su tela, CM 65 x 72
Solomon R. Guggenheim, New York

Joan Mirò, Testa, 1974
Acrilico su tela, cm 65,1 x 50
Fondació Joan Miró, Barcellona

sabato 21 dicembre 2019

I percorsi della mente, Vanna Laera


Autore:   Vanna Laera

Titolo dell’opera: I sentieri dell’anima, 2017

Tecnica: Acrilico su tela

Dimensioni: 54 cm x 56 cm

Ubicazione attuale:  Collezione privata







Quest’opera è l’essenza e al contempo l’insieme del nostro universo, il colore appare e scompare a seconda di come lo osserviamo, le forme si scompongono perdendosi in un’astrazione concettuale per poi ricomporsi in una realtà intrecciata ai sogni.
Trascendenza e controllo, lasciarsi andare fino a perdesi o cercare un appiglio per non perdersi?
Il dipinto ci permette di intravedere un gioco naturale dove vaghe forme animali e vegetali sembrano voler impossessarsi della scena ma lo sguardo attento e prolungato ci mostra quel meraviglioso vortice che è il nostro esistere, dove la poesia delle forme e dei colori si unisce al fascino sensuale della seta”.

Queste sono le parole che ho usato, un anno fa, quando vidi per la prima volta quest’opera, la possibilità di rivederla ha messo in evidenza l’evoluzione di un dipinto o, più probabilmente l’evolversi della nostra “visione”.

Non parlo di rivoluzione ma di un “mutare” della nostra comprensione, quella mia lettura è ciò che vidi ed è quello che vedo tutt’ora, il mutamento sta nel sentire più intima, più famigliare, l’opera, come se il tempo abbia permesso di creare un’affinità con il quadro.

Vanna Laera è un’artista che da alle proprie opere la possibilità di entrare in contatto con lo spettatore andando oltre la comunicazione visiva, dipinge su seta trasformando la “tela” in capi d’abbigliamento, un’opera indossata entra a far parte dell’io di chi la indossa.

L’opera diviene cosi un tramite, una fusione tra l’artista e il committente, ciò che prende vita dalle mani del pittore viene alimentato dal calore di chi lo porta, sulla pelle, nel cuore, e nell’anima.

sabato 14 dicembre 2019

Illusione celestiale, Jan van Eyck


Autore:   Jan van Eyck
(Maaseik, 1390 ca. – Bruges,1441)

Titolo dell’opera: Annunciazione – 1435 ca.

Tecnica: Olio su tavola

Dimensioni: Ciascun pannello cm 38,8 x 23,2

Ubicazione attuale:  Museo Tyssen-Bornemisza, Madrid






Un’opera straordinaria e rivoluzionaria, Van Eyck ribalta le gerarchie che tradizionalmente vedevano la scultura primeggiare sulla pittura dimostrando quanto quest’ultima può emulare la prima.

In questi pannelli il pittore fiammingo colloca le “statue” dell’arcangelo Gabriele (a sinistra) e della Vergine rappresentati nell’istante in cui l’angelo porta a Maria la lieta Novella.

Le due figure incastonate nelle cornici sporgono per poter comunicare abbandonando cosi la collocazione canonica.

Infiniti sono gli straordinari dettagli che danno l’illusione di trovarsi davanti a un’opera tridimensionale, lo sfondo scuro sembra una lastra di marmo nero dove si specchiano le due “sculture”.

La luce, che proviene da una fonte esterna a destra, permette alla schiena , e soprattutto all’ala dell’angelo, di proiettare un’ombra sulla cornice, stessa cosa per la Vergine Maria che “oscura” lo stipite con l’ombra del proprio corpo e quella del libro che stava leggendo prima dell’apparizione celeste.

Van Eyck ha voluto svelare l’inganno visivo, dando cosi maggior dignità alla pittura, con la colomba che liberamente vola accanto alla giovane donna, cosa impossibile nella scultura in quanto la colomba stessa avrebbe avuto bisogno di un punto d’appoggio.

Un altro aspetto da sottolineare è la sfida che van Eyck  lancia alla pittura italiana sua contemporanea, mentre nel bel paese i dipinti vengono concepiti come finestre che fanno da confine tra ciò che sta al di qua e quello che viene rappresentato al di la, Van Eyck capovolge il concetto e permette ai protagonisti di varcare il confine avvicinando idealmente la rappresentazione e chi si appresta a osservarla.

Un’opera senza precedenti che a tutt’oggi riesce a meravigliare gli spettatori di tutto il mondo.

sabato 7 dicembre 2019

Ai posteri l'ardua sentenza.

S’intitola “Commedian” ed è esposta all’interno dell’importante fiera d’arte contemporanea “Art Basel Miami Beach”.


Naturalmente in molti avranno sentito parlare in questi giorni dell’ultima realizzazione di Maurizio Cattelan, una banana attaccata al muro con un pezzo di nastro adesivo argentato (definirlo grigio fa meno “artistico”).

C’è chi la definisce opera d’arte concettuale, chi un ritorno al ready-made duchampiano, chi una provocazione o una semplice boutade esibita per fare rumore e, perché no, smuovere un po’ di denaro.

Non sarò certo io a dare un giudizio, mi voglio solo soffermare sulla motivazione dello stesso artista che vuole invitare “il pubblico a riflettere sul concetto di valore delle opere d’arte, e soprattutto sul modo in cui noi diamo valore agli oggetti”.

Se il motivo di Cattelan è quello di smascherare il controverso mercato dell’arte e le sue contorte “visioni” indirizzate verso il facile e cospicuo guadagno, è difficile pensare che abbia centrato il punto riuscendo al tempo stesso ad essere credibile.

Non voglio denigrare la scelta, in fondo è un’idea che può avere un lato interessante ma che sa di “già visto”.

Oltre al già citato ready-made che ci porta indietro di un secolo abbondante, Cattelan propone il frutto che fece epoca con Andy Warhol e la copertina dell’album dei Velvet Underground nel, ormai lontano, 1967.

Naturalmente non possiamo dare un’interpretazione “artistica” basandoci su quanto hanno sborsato i collezionisti (120 mila dollari) ma possiamo cercare un significato più o meno nascosto.

Una cosa è certa, è presto per ogni conclusione, eviterei i facili entusiasmi e al contempo ogni accenno di stroncatura, anche in questo caso sarà il tempo a dare un giudizio più equilibrato, sempre che il frutto dell'amore resista fino ad allora.

sabato 30 novembre 2019

La semplicità e l'eleganza di un piccolo dono, Edouard Manet.


Autore:   Edouard Manet
(Parigi, 1832 – Parigi, 1883)

Titolo dell’opera: L’asperge – 1880

Tecnica: Olio su tela

Dimensioni: 16 cm x 21 cm

Ubicazione attuale:  Musée d’Orsay, Parigi




Piccolo e interessantissimo dipinto che porta con se una curiosa storiella.

Monet aveva dipinto un mazzo di asparagi nello stile delle nature morte dell’Olanda del seicento, il mazzo di ortaggi su un tappeto di foglie e lo sfondo scuro senza alcun riferimento di spazio e tempo. L’opera venne venduta all’amico Charles Ephrussi per 800 franchi, l’acquirente al momento del pagamento versò al pittore parigino mille franchi.

Per ricambiare la cortesia ricevuta Manet realizza questo piccolo quadro e lo spedisce a Ephrussi accompagnato da un biglietto: “Ne mancava uno al vostro mazzo”.

Mentre il primo dipinto segue una precisa struttura compositiva, la seconda piccola opera è libera da ogni convenzione e prende una strada diversa, quasi senza una precisa meta.

L’asparago è assoluto protagonista, non vi è raffigurato nient’altro che l’ortaggio e il bordo del ripiano di marmo che lo sorregge.

Elegante e raffinato nella sua essenzialità il dipinto si lega ad alte opere che in quel periodo venivano realizzate per accompagnare biglietti d’auguri, ringraziamenti o semplicemente come piccoli doni.



sabato 23 novembre 2019

Responsabilità condivise.


L’arte contemporanea si rivolge veramente ad una ristretta cerchia elitaria come sostengono in molti?

E’ vero che molti critici si legano agli artisti più “sponsorizzati” dai media al punto che le cifre di molte opere raggiungono livelli esagerati per quello che è il valore artistico delle stesse opere, ma siamo sicuri che la maggioranza degli appassionati, esclusa da certi “indirizzamenti” del mercato, sia esente da responsabilità?

Gli artisti, i galleristi coadiuvati da alcuni critici ammorbiditi fanno fronte comune per indirizzare il mercato stesso, i collezionisti, spesso si tratta di neo-ricchi che comprano qualsiasi cosa a qualsiasi prezzo, rincorrono l’utopia elitaria alterando i canoni artistici.

Sono però convinto che il pubblico cosiddetto “comune” abbia delle responsabilità, infatti ci troviamo di fronte (ci sono ovviamente delle eccezioni) a due gruppi distinti: quelli che vedono capolavori a prescindere e che accettano qualsiasi cosa gli si mostri e quelli che rifiutano qualsiasi cosa che faccia parte dell’arte contemporanea.

Manca (o è carente) la via di mezzo, sono infatti pochi quelli che si fermano a riflettere davanti ad una novità, invece di analizzare e poi tentare di dare un giudizio equilibrato, la maggioranza vede o nero o bianco e questo permette alle “corporazioni”, artisti-galleristi-critici, di fare e disfare a proprio piacimento e beneficio.




Nell’immagine: George Grosz, Eclissi di Sole, 1926, olio su tela, 207 x 182,5 cm. The Heckscher Museum of Art, Huntington

sabato 16 novembre 2019

La strumentalizzazione dell'arte, Pellizza da Volpedo.


Autore:  Pellizza da Volpedo (Giuseppe Pellizza)
(Volpedo, 1868 – Volpedo, 1907)

Titolo dell’opera: Il quarto stato – 1901

Tecnica: Olio su tela

Dimensioni: 293 cm x 545 cm

Ubicazione attuale:  Museo del Novecento, Milano






Usato e abusato dalla fine degli anni sessanta del secolo scorso fino ad oggi prevalentemente per scopi propagandistici, ha con il tempo perso il suo vero e fiero valore sociale, l’opera di inizio 900 aveva, e ha tutt’ora, un’energia rivoluzionaria che l’opportunismo odierno ha trasformato in un simbolo “altro”.

In un periodo in cui solo il clero, la nobiltà e la borghesia avevano il diritto di fare e disfare a loro piacimento, il pittore di Volpedo vuole dare voce ai contadini, ai braccianti che erano esclusi dal potere decisionale.

Pellizza arriva a questa tela passando per altre due opere, “Ambasciatori della fame” e “La fiumana”, vere evoluzioni di un pensiero ben preciso, la condizione dei ceti più “bassi”, la fame sempre presente, la vita di stenti e fatiche a cui erano obbligati, richiedono una reazione che avvicini a una uguaglianza tra questi ultimi e i tre “stati” che godevano di ben altre risorse (spesso a scapito dei più poveri).

La rivoluzione di Pellizza non è violenta, sia i tre protagonisti in primo piano che la gente che li segue mette in mostra la determinazione di sa di avere la ragione dalla propria parte, nel contempo marcia fiera ma senza segni di belligeranza.

L’uomo al centro appare sicuro di se, è deciso a far valere i propri diritti senza voler usurpare i diritti altrui, l’uomo alla sua destra è l’emblema della saggezza popolare che accompagna la determinazione, mentre la donna con in braccio un bambino (la modella è la moglie del pittore stesso) mette in prima linea la presenza fondamentale della donna e quella delle generazioni future.

Che il clima sia consapevole e addirittura calmo e sereno (calma e serenità, anche in momenti turbolenti, vengono dalla ragione) si denota dai volti delle persone, dal modo in cui discutono tra loro e dalla presenza di bambini.

Ogni opera va contestualizzata, siamo ai primi del 900 e questo dipinto ci parla del tentativo di raggiungere un livello sociale, culturale e morale che sia uguale per tutti, letta dopo sessant’anni o dopo un secolo deve dare i giusti spunti di riflessione, ogni strumentalizzazione impoverisce il concetto rendendolo sterile.




Ambasciatori della fame, 1892
Olio su tela, cm. 51,5 x 73
Collezione privata


Fiumana, 1898
Olio su tela, cm. 255 x 438
Pinacoteca di Brera, Milano

sabato 9 novembre 2019

L'arte contemporanea e la sua mesta dissolvenza.


Gabriel Orozco, Scatola di scarpe vuota, 1993.

Presentata alla Biennale di Venezia riscuote molto successo, ma a ventisei anni di distanza cosa rimane?


 L’arte contemporanea è probabilmente al capolinea, ciò che nasce nella seconda decade del novecento con i Ready Made  di Duchamp, in particolare con il celeberrimo “orinatoio”, si sviluppa in un continuo crescendo fino alla Pop Art di matrice “warholiana”, per poi iniziare un lento declino che trova l’ideale “spegnimento” con il poco originale e vagamente (nemmeno troppo) kitsch, Wc d’oro di Cattelan.

Nell’arco di questo secolo (anche se è un controsenso definire contemporaneo un arco di tempo cosi ampio) le idee iniziali si sono evolute per un certo periodo per poi ridursi a una ripetizione, a una autocelebrazione del già visto.

La scatola da scarpe vuota di Ozorco nella sua semplicità ci diceva semplicemente che l’arte, per come viene espressa in questo periodo storico, si è svuotata di ogni sensazione ed emozione, un vuoto concettuale di cui abbiamo coscienza solo ora.

 Sarà comunque sempre il tempo a dirci se l’inizio del XXI secolo passerà alla storia come l’inizio di un nuovo modo di esprimere arte o la conclusione di un periodo d’oro che si è spento nell'autocompiacimento.

sabato 2 novembre 2019

Fino alla fine, Dora Maar.

Autore: Dora Maar
(Tours, 1907 – Parigi, 1997)

Titolo dell’opera: Senza titolo – 1934

Tecnica: Fotomontaggio, stampa alla gelatina d’argento


Ubicazione attuale:  Musée National d'Art ModerneCentre Pompidou, Parigi




Surreale nell’animo artistico, fin troppo “reale” nella sua sottomissione al “minotauro”, artista di grande talento che viene ricordata solo come modella, musa e amante di Picasso che, ne assorbe l’energia per poi accantonarla in un angolo.

La sua storia con il pittore spagnolo le ha sottratto l’intensità artistica che aveva espresso fino a quel momento, non sappiamo quale strada avrebbe preso se non avesse incontrato Picasso ma possiamo immaginare che senza lo “svuotamento” dovuto alla relazione e successivamente all’abbandono con l’artista catalano staremmo parlando di un’altra Dora Maar … o forse no.

A quantificare l'esaurimento  delle energie, artistiche e psicofisiche, dovute a tutto questo basta una sua frase: “Io non sono stata l’amante di Picasso, lui era soltanto il mio padrone”.

Dora Maar incontrerà Picasso l’anno successivo alla realizzazione di quest’opera, ma conoscendo ciò che è successo viene spontaneo parlare di premonizione o della consapevolezza della propria essenza, avesse realizzato questo lavoro più tardi diremmo che ci ha lasciato un testamento spirituale e un resoconto di una vita.

La fotografia “blocca” l’istante rendendo la realtà irreale, ma può anche regalare un’oggettiva tangibilità a ciò che fondamentalmente reale non è.


L'illusione spesso si confonde con ciò che è reale, spesso l'artista, ma anche lo spettatore, cercano e trovano solo ciò che desiderano fosse vero nascondendo inconsciamente quella verità che si vuole accantonare.

sabato 26 ottobre 2019

L'estasi mistica, artistica e spirituale, Guido Cagnacci


Autore:   Guido Cagnacci
(Santarcangelo di Romagna, 1601 – Vienna, 1663)

Titolo dell’opera: Pala dei Carmelitani – 1630 ca.

Tecnica: Olio su tela

Dimensioni: 335 cm x 210 cm

Ubicazione attuale:  Chiesa di San Giovanni Battista, Rimini






La pala mostra tre scene raccolte in un’unica narrazione, in alto Sant’Andrea Corsini vescovo di Fiesole, facente parte dell’ordine dei carmelitani, mentre ha una visione della Vergine e di Gesù ancora in fasce.

Sotto a destra un’altra santa appartenente all’ordine delle carmelitane, si tratta di Santa Maria Maddalena de Pazzi che mostra orgogliosa, e con estrema devozione, il proprio cuore,mentre un angelo al limite della pala le mette in testa una corona di spine.

A sinistra possiamo vedere Santa Teresa D’Avila mentre sta “vivendo” un’estasi di rara intensità (difficile non collegare questa rappresentazione a quella che il Bernini realizzerà in scultura una trentina d’anni dopo).

L’estasi della santa spagnola travolge la donna stessa in una sensuale passione spirituale che non può non esprimere anche un coinvolgimento fisico.

L’angelo che impugna la freccia che colpisce Santa Teresa è forse il personaggio più curioso del dipinto, lo sguardo si volge verso l’esterno dell’opera, il volto illuminato ci dice che qualcosa o qualcuno ha attirato la sua attenzione ma la nostra curiosità resterà tale.

Sospeso tra la sorpresa ed il timore l’angelo spicca anche per l’acceso rosso della sua veste, evidenza cromatica simile a quella della Vergine in un insieme di colori cupi.

sabato 19 ottobre 2019

La profondità (relativa) del silenzio, John Cage.


“4’33” è un’opera del compositore statunitense John Cage.

L’originale composizione dalla durata di quattro minuti e trentatré secondi ed è divisa in tre movimenti rispettivamente di 30 secondi il primo, 2 minuti e 23 secondi il successivo e 1 minuto e 40 il terzo.


Composta per qualsiasi strumento ha la caratteristica di rappresentare un silenzio musicale.

L’assenza infatti di qualsiasi suono proveniente dagli strumenti non ha il compito di “descrivere” il silenzio ma quello di evidenziare i suoni esterni all’orchestra o al solista che si esibisce, in questi 4 minuti e mezzo vengono ampliati i suoni, i rumori prodotti dai musicisti, dal pubblico o prodotti dall’esterno del teatro. E anche dove i rumori esterni vengono attutiti il silenzio nella sua essenza non è percepibile, è sempre presente il battito del nostro cuore, il fluire del sangue. 

Irritante per alcuni, geniale per molti, Cage esplora l’essenza del silenzio senza veramente trovarlo, la durata dell’esibizione è di 273 secondi, lo zero assoluto è a -273,15 °C, quest’ultima è una temperatura impossibile da raggiungere e Cage ci mostra che anche il silenzio assoluto è una meta irraggiungibile.

Il compositore di Los Angeles deve l’ispirazione per quest’opera all’amico pittore Robert Rauschenberg e ai suoi “White Painting”, dipinti bianchi che cambiavano tonalità a seconda delle condizioni luminose.

Difficile interpretare una composizione musicale senza musica, l’aspetto puramente filosofico ci spinge a entrare nell’opera in quanto realizzazione concettuale.

E’ impossibile restare indifferenti a quest’opera, che il nostro giudizio sia positivo o negativo non possiamo non riflettere sull’assenza di qualsiasi “assolutismo”, e il silenzio non ne è esente.

A seguire il video della rappresentazione dell’opera da parte del pianista William Marx.

(Nell’immagine in alto: Robert Rauschenberg, White Painting [three panel], 1951)

sabato 12 ottobre 2019

L'enigma dell'opera d'arte.

Un albero, in quanto “creazione” naturale, non può essere considerato un’opera di carattere artistico ma può rientrare in questa categoria se viene modificata, anche momentaneamente, la sua funzione?


Se all’albero stesso aggiungiamo delle fonti luminose che fanno da supporto a dei normali capi d’abbigliamento trasformiamo l’insieme in un opera artistica? (non ho usato di proposito il termine “opera d’arte” per quello che può significare nell’immaginario di tutti noi).

L’installazione a questo punto è l’assoluta protagonista di una fotografia (in questo caso lo scatto è di Tim Walker), ma l’opera “artistica” non è più l’albero con le sue decorazioni o l’insieme albero-luci-vestiti, l’unica opera “artistica” è la fotografia che li ritrae.

L’immagine è opera d’arte in quanto fotografia che cattura l’opera d’arte in quanto istallazione che a sua volta unisce tre componenti che nel loro compito quotidiano nulla hanno di artistico.

sabato 5 ottobre 2019

Variazioni, la linea di confine, James Ensor


Autore:   James Ensor
(Ostenda, 1860 – Ostenda, 1949)

Titolo dell’opera: Fiori e ortaggi – 1896 ca.

Tecnica: Olio su tela

Dimensioni: 79 cm x 98 cm

Ubicazione attuale:  Museo Koninklijk per Schone Kunsten, Anversa





Famoso per i dipinti dal soggetto grottesco e assurdo dove personaggi, spesso in maschera, danno vita a scene dove l’assenza di realismo logico la fa da padrona.

In questo quadro Ensor sembra invece dedicarsi al piacere della pittura, mantiene intatto il senso del colore presente nelle altre opere ma ci lascia un senso di piacevole calma.

Ma stiamo parlando di Ensor e in fondo, se guardiamo con attenzione, un pizzico di “stravolgimento” è presente, l’espressionismo che da li a poco prenderà piede già comincia a fare capolino, cosi come la scia che, con le sue opere più note, ci riporta ad un personale “simbolismo” che lascerà indelebili tracce riprese dalla pittura di inizio novecento.

Tutto è chiaro sul tavolo, i fiori nei vasi, la brocca decorata, e gli ortaggi appoggiati sul piano del tavolo stesso sono la canonica espressione di una lieve e piacevole natura morta.

Lo sfondo però non è anonimo pur non essendo riconoscibile, potrebbe essere l’interno di un’abitazione o di un altro luogo, ma anche una rappresentazione all’aperto, più probabilmente il luogo idealizzato cambia a seconda di come ci approcciamo al dipinto, il pittore fiammingo ci lascia immaginare la scena permettendoci di costruirne una narrazione. 

sabato 28 settembre 2019

Il capolavoro del "rinascimento" fiammingo, Rogier van der Weyden


Autore:   Rogier van der Weyden (Rogier de la Pastour)
(Tournai, 1399 ca. – Bruxelles, 1464)

Titolo dell’opera: Deposizione di Gesù (Discesa di Cristo dalla croce)
La datazione dell’opera va dal 1433 al 1437 (alcune fonti differiscono da altre)

Tecnica: Olio su tavola

Dimensioni: 220 cm x 262 cm

Ubicazione attuale:  Museo del Prado, Madrid






Sicuramente l’opera più famosa di van der Weyden e altrettanto sicuramente si tratta di una delle più originali “deposizioni” nella storia dell’arte.

Il pittore fiammingo rappresenta il momento in cui Gesù schiodato dalla croce viene deposto in terra, forse il momento in cui Dio è meno Dio e più uomo.

La rappresentazione avviene all’interno di un preciso confine, quasi un palco dove le pareti non permettono nessuna fuga, tutto è compresso anche se i protagonisti hanno un loro preciso spazio.

Vari sono i particolari che popolano quest’opera, a cominciare dal senso di movimento della scena, infatti tutti i presenti sono colti in un momento di difficoltà dove il corpo del Cristo con tutto il suo peso viene collocato a terra.

Il servo con una mano si aggrappa alla croce e con l’altra accompagna la deposizione del corpo di Gesù, Nicodemo lo sorregge per le braccia mentre Giuseppe d’Arimatea sostiene il corpo dalle gambe.

La scena è in movimento nonostante l’insieme sia fissato nel tempo, i piedi dei due uomini che sorreggono il corpo sono in equilibrio precario ed esprimono il movimento del gesto, anche Giovanni, sulla destra, fa lo stesso sforzo anche se per sostenere Maria che sviene per il dolore.

Ed è proprio il dolore, lo sconforto, che viene sottolineato da van der Weyden, le espressioni del viso, le lacrime, evidenziano lo stato d’animo di tutti i personaggi presenti.

Curioso come l’artista si dedichi ai particolari ( le lacrime, le barbe incolte di alcuni uomini o la vegetazione alla base della scena) con estrema attenzione mettendo in evidenza una capacità tecnica di enorme spessore ma al contempo presta poca attenzione alla prospettiva (la croce parte da un piano secondario ma la parte più alta la troviamo in primo piano).

Sono infiniti gli spunti di curiosità, il servo dietro Giuseppe d’Arimatea e di fianco a Maria Maddalena tiene in mano un vaso contenente gli unguenti che serviranno all’inumazione del corpo, ma non possiamo escludere che si tratti di un oggetto dal contenuto simbolico.

A tutte le donne cade il mantello, la Vergine svenuta non ne ha il controllo e il mantello stesso cade alle sue spalle, la “Maddalena” a destra lo lascia cadere, troppo forte il dolore che gli piega le ginocchia dandole una postura quasi innaturale, anche alla donna all’estrema sinistra scivola il mantello dalle spalle ma un preziosismo del pittore ce la mostra mentre con la mano sinistra cerca di impedirne la caduta.

La struttura narrativa, i particolari dettagliati, i simboli che popolano il dipinto, non mettono in secondo piano i colori, l’intensità cromatica cattura l’osservatore impedendogli di lasciare l’opera senza le sensazioni  e le emozioni che restano impresse nell’anima.