mercoledì 30 novembre 2022

Seguendo una strada alternativa, Dubuffet e l'arte "Brut"

 Jean Dubuffet ha fatto del realismo crudo il suo centro gravitazionale attorno a cui si muove l’arte al di fuori dei concetti accademici.

Il pittore francese accusa la civiltà greca di aver deciso arbitrariamente cosa sia bello e cosa no.

Jean Dubuffet - Dhôtel nuancé d'abricot (1947) - Olio su tela, cm. 116 x 89

Centre Georges Pompidou, Parigi

La sua idea di base prevede un’assoluta istintività nel creare, nel costruire una visione del mondo che ci circonda, esponente di spicco dell’arte “brut”, intesa come arte grezza, cruda, senza contaminazioni, fondamentalmente una forma d’arte per pochi, solo chi è esente da contagi artistici è in grado di dare vita all’arte perfetta, più pura.

Il ritratto quasi grottesco, inconcepibile per chi cerca una rappresentazione fedele della realtà, è esattamente quello che potrebbe creare un bambino nei primissimi anni di vita, prima che le molte informazioni possano deviarne la purezza di pensiero.

Dubuffet sosteneva che oltre ai bambini solo i malati di mente possono raggiungere tali vette incontaminate in quanto sono gli unici a seguire le proprie strade senza che la società e la cultura che ci avvolgono possano spingerci verso mete prestabilite.

L’artista di Le Havre può essere scandagliato nel suo essere più profondo ma è difficile approcciare le sue opere senza una visione alternativa, la conoscenza della sua rappresentazione, del suo personale realismo, possono sfuggirci in qualsiasi momento, per mantenere la rotta dobbiamo deviare dai nostri consueti binari e guardare nel suo specchio cercando qualcosa che non conosciamo.

Il rischio che corriamo è quello di voler interpretare l’espressione della figura ritratta, nulla è reale, per i nostri canoni, per questo motivo è difficile pensare che il volto abbia dei messaggi da inviarci, solo osservandolo con un occhio diverso possiamo immaginare dove è diretto. 


venerdì 25 novembre 2022

I titoli delle opere d'arte, storia di quotidiani maltrattamenti

Spesso, troppo spesso, noto la scarsa considerazione che ha un titolo di un’opera d’arte rispetto all’insieme dell’opera stessa.

Questo accade soprattutto ai pittori (perché è soprattutto in pittura che si “maltrattano” i titoli) poco conosciuti, infatti gli artisti che hanno un certo appeal, con il pubblico e con gli addetti ai lavori, curano con più attenzione quello che potremmo definire il nome dell’opera (il grande artista non lascia nulla al caso).

Jackson Pollock - Untitled (particolare) 1945 ca.
Inchiostro e gouache su puntasecca, cm 44,9 x 54,3
Collezione privata

Con il proliferare dei social, assistiamo a scene dove si chiede al pubblico di trovare un titolo perché “non riesco a trovarne uno” o peggio ancora "non ho avuto il tempo per pensarci".

Questo denota una superficialità e una scarsa conoscenza del valore di un dipinto nel suo insieme, spesso assistiamo a “titolazioni” imbarazzanti che sminuiscono il valore concettuale del quadro.

Le opere del passato hanno, nella quasi totalità dei casi, un titolo postumo, attribuito dopo molti anni se non secoli dalla scomparsa dell’autore, in questo caso ci troviamo di fronte a descrizioni dell’opera o al nome di uno dei proprietari o all’indicazione del luogo in cui è stato realizzato o della città dove risiedeva il committente.

Un altro punto da sottolineare riguarda l’arte astratta, anche in questo caso i titoli sono spesso attribuiti a caso o, peggio ancora, sono un veicolo utilizzato per dare una spiegazione, capite che voler dare una delucidazione circa un dipinto astratto è un controsenso.

Le grandi opere astratte sono sovente accompagnate da un inequivocabile “senza titolo”, oppure sono abbinate a un numero che le rende reperibili, al massimo racconta un concetto che indica la direzione da prendere senza però dare altre indicazioni, le “Composizioni” di Kandinskij e i “Concetti spaziali” di Fontana ne sono un esempio.

Se deve essere astratto un dipinto lo sia fino in fondo, se davanti ad una tela dove le forme sono indistinte e ad emergere è il colore che senso ha intitolarlo “Passeggiata sulla spiaggia al chiaro di luna”? Si da l’impressione di cercare un titolo che “racconti” qualcosa perché non si è in grado di farlo con il pennello.

Ultima deriva della titolazione selvaggia è la ricerca di una poetica che di poetico non ha alcunché, cercare una parvenza filosofica che sfocia spesso nel banale se non nel ridicolo.

Accade spesso con i nudi (in particolare quelli femminili) dove dal titolo si capisce se l’autore è una donna o un uomo, titoli che svelano più i desideri personali che una narrazione dell’opera.

Se un pittore chiede a qualcun altro di dare un titolo alla sua creazione è credibile? Siccome sono convinto che il nome di un quadro sia parte integrante del quadro stesso, chiedereste al primo che passa di dare un’ultima pennellate al vostro lavoro?

La risposta naturalmente è no, ma con i titoli è differente, forse qualcuno non considera il nome parte del dipinto, questa mancanza si nota eccome, spesso il titolo affossa l’opera, con risultati imbarazzanti.

domenica 20 novembre 2022

La morale, i moralismi e le derive culturali (e sociali)

Fino a che punto può spingersi la libertà di espressione?

Tutti siamo d’accordo sul diritto di ognuno di sentirsi liberi nell’esprimere le proprie idee ma c’è un limite oltre il quale è meglio non spingersi?

Balthus (Balthasar Kłossowski de Rola) – Thérèse dreaming, 1938  Olio su tela cm 149,9 x 129,5 – Metropolitan Museum of Art, New York


Naturalmente ci si deve fermare nel momento in cui si va a danneggiare l’altro, ma quando si interviene andando contro i canoni “morali” altrui ci si deve fermare? E se è cosi (ad esempio si urtano le sensibilità religiose, ideali politici o convinzioni moraleggianti) non è l’altro che offende l’artista limitandone di fatto la libertà?

E’ il caso di Balthus e la sua “Thérèse dreaming” che qualche anno fa fu esposta al MET di New York.

Lo scandalo fu enorme al punto che un comitato ha raccolto le firme per farlo rimuovere e distruggere (in seguito è stata negata la richiesta di distruzione inserita inizialmente nel testo) con l’accusa al pittore, scomparso quasi 18 anni fa, di “promuovere la pedofilia”.

Ogni opinione è importante e va tenuta in considerazione ma è curioso che un dipinto del 1938 venga messo in discussione ottant’anni dopo.

Inoltre  dubito che un individuo “sano” di mente venga incoraggiato da un semplice dipinto a delinquere, è altrettanto vero che menti meno in salute possano farsi influenzare, ma è questo il caso?

Difficile tracciare i confini di dove ci si può spingere ma qual è il momento in cui si danneggia il “prossimo”?

Thérèse Blanchardvicina di casa del pittore, all’epoca del dipinto aveva all’incirca 12 anni, ha posato per altre opere di Balthus, dipinti che non hanno lesinato critiche in quanto decisamente provocatori.

Non si conoscono particolari che inducano a "pensare male" del pittore riguardo alla sua modella preferita, non ci sono denunce che possano dar vita a ricostruzioni più o meno arbitrarie (se non di chi ha visto il quadro decenni dopo) questo stronca sul nascere ogni insinuazione sul rapporto tra modella e il pittore.

Tralasciando i vari processi alle ipotetiche intenzioni ci dobbiamo concentrare su quello che il dipinto rappresenta, la narrazione va in una direzione che si spinge oltre il limite culturale, sociale e morale dell’osservatore, ci racconta, grazie al titolo, il sogno di una giovane adolescente, o meglio, ci mostra una giovane adolescente immersa nei propri sogni, quali siano non lo sappiamo (se non fosse per il titolo potremmo vedere semplicemente una ragazza che si rilassa al sole, la postura poco elegante ci spinge a pensare ad una provocazione ma questo è frutto dei nostri canoni morali) non ci sono indicazioni in merito se non quelle che il nostro modo di pensare ci impone.

A questo punto la domanda iniziale diviene ancor più complessa, o perlomeno è complesso dare una risposta, risposta che in qualche modo ha dato il museo stesso, non solo l’opera non è stata distrutta, come chiedeva il comitato, ma il dipinto resterà al suo posto.

La censura non ha mai portato alcun beneficio, semmai, al contrario, ha impedito quella crescita del pensiero critico di cui, a tutt’oggi, ne sentiamo il bisogno, se qualcuno si offende davanti a questi dipinti ha il diritto di privarne la vista anche a chi guarda oltre gli steccati morali?


martedì 15 novembre 2022

La strada impervia è la preferita da chi sa viaggiare.

Max Ernst, il Leonardo del 900” questo è il titolo della retrospettiva dedicata all’artista tedesco a Milano.

Non voglio parlare della mostra ma del pensiero che scaturisce davanti a quel “Leonardo del 900”, carismatico, elegante, sfuggente, ma soprattutto complesso, Max Ernst non è certamente il pittore del 900 più conosciuto anche se è tra i più celebri.

Max Ernst - La Vergine sculaccia il bambino Gesù davanti a tre testimoni: Andre Breton, Paul Eluard e il pittore stesso. 1926 Olio su tela, cm. 196 × 130. Museo Ludwig, Colonia.


Leonardo da Vinci è stata la sua grande passione ma l’appellativo che gli viene dato va oltre, Ernst ha svariato su molti fronti artistici (pittore, scultore, attore) e ha accarezzato i vari movimenti che hanno dato vita all’arte del secolo scorso, Max è stato surrealista, dadaista, patafisica e metafisico, teorico dell’arte e creatore del dripping, tecnica che ha fatto la fortuna di Pollock.

L’accostamento con l’artista fiorentino in fondo non mi offre spunti particolari se non la curiosità che mi spinge a cercarli (questi ultimi) ma la ricerca di contatti con l’essenza delle due figure mi ha fatto comprendere la grandezza di Ernst e la sua forza, un mix tra il coraggio e la sfrontatezza, doti di cui abbondava.

Ha affrontato la pittura da autodidatta con alle spalle studi di arte, filosofia e psicologia, l'influenza del pensiero di Freud è evidente nell'intero percorso artistico.

Il dipinto che voglio proporre non è tra le più celebri da lui realizzati ma è un perfetto esempio della "strada" che aveva deciso di intraprendere, accusato di blasfemia con quest'opera ha attirato l’attenzione dei surrealisti, Chi conosce Max Ernst sa dove questo lo ha portato, in caso contrario la mostra di Milano è l’occasione di avvicinarsi al suo estro (questo non esclude che la mostra sia consigliata anche a chi lo conosce a fondo, anzi).

La Vergine Maria è ritratta mentre sculaccia il piccolo Gesù, la scena è naturalmente surreale, in un angusto spazioqui emerge la metafisica (dedica a De Chirico) la madre del figlio di Dio si comporta come una comune mamma (siamo nel 1926) l’aureola sul capo della donna non lascia spazio a dubbi, curiosamente l’aureola non circonda la testa del bambino, la troviamo a terra, se non ci sono dubbi sull’entità della madre non mancano su quella del bambino.

La scena però ha degli spettatori, tre volti si affacciano da una finestra, anche se sembra più un “ritaglio” di una scenografia teatrale (cosi come la posa dei personaggi) i tre sono, come sottolineato nel titolo, il pittore stesso, e due suoi amici, Paul Eluard e Andrè Breton, figura principale del movimento surrealista.

A cosa assistono i tre? Gesù che perde l’aureola è difficile da concepire, chi è dunque il bambino? Il pittore stesso ci da la risposta ma facciamo fatica a credere che sia cosi …


giovedì 10 novembre 2022

Le barriere mentali opposte all'infinito (temporale e spaziale)

Il vero nemico dell’arte contemporanea (intesa come arte del “presente”) è la velocità, oggigiorno tutto scorre freneticamente e anche chi si appresta ad “osservare” un dipinto, una scultura, un’installazione o una qualsiasi forma d’arte lo fa quasi di sfuggita.

Agli artisti non resta che scegliere tra due strade: o portare avanti comunque il proprio pensiero con il rischio di apparire “incomprensibili” e di conseguenza essere ignorati o criticati (se non addirittura dileggiati) oppure semplificare al massimo il messaggio che si vuole trasmettere con il risultato di “creare” delle banalità.

Michelangelo Pistoletto - Metrocubo d’infinito, 1966  - Fondazione Pistoletto, Biella


Il fruitore medio non ha ne la voglia ne, spesso, la capacità di approfondire ciò che vede, pretende di cogliere al volo l’essenza di un’opera artistica sbeffeggiando qualsiasi cosa che non riesce a comprendere.

Per questo motivo l’artista fatica ad avanzare nel proprio tempo per poi essere compreso “postumo”.

E’ vero che questa situazione si è verificata regolarmente anche in passato ma mai come oggi la capacità di osservare, comprendere e approfondire ha toccato i minimi storici, si hanno immense fonti di approvvigionamento culturale, fonti che necessitano di impegno e perseveranza, oltre alla capacità di discernere, qualità ormai in via d’estinzione.

Dobbiamo abbandonare la frenesia e tornare a quella lentezza che ci permette di riflettere, invece di prendere per buono (definitivo) quello che ci appare ad un primo sguardo, dobbiamo pensare che si tratta solo di una porta d'ingresso, per comprendere ciò che sta dietro i battenti dobbiamo per forza entrare.

Uno dei tanti esempi può venire dall'opera di Michelangelo Pistoletto, Metrocubo d'infinito, all'apparenza non vediamo altro che un cubo di un metro per lato, nessuna attrattiva cromatica, un semplice manufatto che può o meno destare interesse.

Ma avvicinandoci alla scultura (o installazione) e scendendo con lo sguardo in profondità, tramite delle fessure sui bordi, un incredibile gioco di specchi ci offre una visuale senza fine, racchiuso in un metro cubo (appunto) scorgiamo l'infinito. Cosa impossibile se ci limitiamo all'aspetto esteriore.

Questo modo di procedere vale, a maggior ragione, anche per opere che non hanno un pertugio in cui guardare, la profondità va colta immaginando l'invisibile partendo da quello che vediamo.

È un "lavoro" impegnativo ma il risultato che possiamo raggiungere ripaga abbondantemente lo sforzo profuso.



sabato 5 novembre 2022

Corrersi incontro per non incontrarsi mai

La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, più nota come Il grande vetro, è l’opera più complessa ed enigmatica di Marcel Duchamp.



Se Fontaine è il simbolo del pensiero “duchampiano” e se Dati:1 la caduta dell’acqua, 2 il gas d’illuminazione è probabilmente il suo capolavoro, quest’opera completa il quadro concettuale dell’artista normanno.

Olio, vernice, filo di piombo e polvere su due lastre di vetro montate con alluminio e legno, la cornice è di acciaio, l’opera viene realizzata in un arco di tempo piuttosto lungo, dal 1915 al 1923.

Il dipinto, se cosi vogliamo chiamarlo, è nettamente diviso in due parti, quella superiore dedicata alla “sposa”, quella inferiore agli scapoli del titolo.

"vetro" inferiore

Nella parte in basso a sinistra sono rappresentati nove maschi, vediamo gli abiti consueti di alcune categoria prettamente maschili, il prete, il vigile, l’operaio ecc. i nove pretendenti sono sospesi su una sorta di carrello che a sua volta è retto da una ruota che permette un movimento in circolo attorno alla “macchina che, al centro, è il perno dell’intero meccanismo.

Il macchinario che da energia al carrello degli scapoli è un vecchia macinatrice di cioccolato appoggiata su un elegante tavolino da salotto.

Il cioccolato come fonte di energia e di piacere, quell’energia e quel piacere che mette in moto i protagonisti di sesso maschile.

"vetro" superiore

Nella parte alta viene rappresentato il mondo femminile, la “sposa” o anche la “vergine” (tutte le descrizioni sono fornite dagli scritti di Duchamp stesso) si presenta sotto forma di una vespa, l’addome sottile, la vita “da vespa” appunto, fino all’estremità dove spunta quello che possiamo definire l’organo del desiderio, è rappresentato esternamente perché simboleggia il tentativo di avvicinarsi al mondo maschile che ruota in tondo senza sosta.

I due poli però sono divisi irrimediabilmente, non si possono incontrare, questo mantiene vivo il desiderio dando vita a una perpetua ricerca, ad un infinito rincorrersi, l’uomo ruota senza sosta, la donna cerca, senza riuscirci, un contatto.

Il genio di Duchamp emerge ulteriormente nel momento in cui, dopo l’unico trasferimento dell’opera per una mostra, gli addetti al trasporto, evidentemente poco professionali, hanno riconsegnato il manufatto pesantemente danneggiato. A causa di un urto i vetri si sono rotti creando una serie di crepe che hanno creato delle griglie, senza scomporsi l’artista si è detto entusiasta della situazione, secondo il suo pensiero: “le crepe nel vetro sono quello che mancavano all’opera, ora è completa”.

Duchamp, che non si era dimenticato di essere un eccelso pittore (semmai sono altri ad esserselo dimenticato) ha piombato le “ferite” nel vetro rendendole definitivamente parte dell’opera, alla perenne ricerca di unione tra il cosmo femminile e quello maschile, unione che non avverrà mai e proprio per questo il desiderio non scemerà nutrendo cosi il meccanismo di inseguimento reciproco, si aggiungono le linee totalmente fortuite che sono l’espressione inequivocabile del concetto di “caso”, come forma imprescindibile nel rapporto quotidiano tra i due sessi, che lo stesso pittore non era riuscito ad esprimere prima dell’incidente occorso all'opera stessa.

martedì 1 novembre 2022

[Aforismi e arte] La realtà e il sogno

«L’uomo reca nell’animo sentimenti innati, che non saranno mai soddisfatti dagli oggetti reali, ed è a tali sentimenti innati che la fantasia del pittore e del poeta daranno forma e vita.

Che cosa imita infatti la musica, prima fra tutte le arti? … Lavoreremo fino all’agonia: che altro fare al mondo, a meno di ubriacarsi, quando giunge il momento in cui la realtà non è più all’altezza del sogno?»

 

Ferdinand Victor Eugène Delaroix


Eugène Delaroix – Autoritratto, 1837  Olio su tela cm 65 x 54 Museo del Louvre, Parigi