Su Prime Video ho incontrato casualmente un film di cui nessuno, o quasi, parla, anche in rete, dove si vocifera di qualsiasi cosa, non ci sono molte informazioni.
Non
aiuta nella ricerca il titolo: “The trail”, la penuria di fantasia ha optato
per qualcosa di usato infinite altre volte.
Pellicola
indipendente dal budget limitatissimo e dalla struttura narrativa tutt’altro
che originale, ma cos è che mi spinge a recensirlo positivamente? Tutto il
resto!
In
un epoca di film dove emerge la fretta, il caos e lo sproloquio, dove un numero
sempre maggiore di personaggi rende tutto caotico, a Stefan Müller, regista
austriaco, è bastato eliminare il superfluo e puntare sull’essenziale per
ottenere un risultato eccelso.
Sophia
Grabner rappresenta il personaggio principale, ma non è solo la protagonista, è
l’unico personaggio presente, al netto di poche comparse in scena per pochi minuti,
inoltre è assente qualsiasi dialogo, questo rende il tutto profondamente intimo,
un frastornate e silenzioso viaggio introspettivo.
Il
film inizia in un ospedale dove una giovane donna è a letto in stato d’incoscienza
e supportata da varie macchine tra le quali quella che eroga ossigeno, subito
dopo appare una scritta: “Un anno dopo”.
Ora
siamo in una stanza d’hotel, dove la donna si prepara per uscire, indossa
scarponi da trekking, una giacca a vento e uno zaino, davanti allo specchio,
prima di chiudere il colletto della giacca attorno al collo notiamo una cicatrice
che corre da destra a sinistra sulla gola.
Esce
dall’hotel e si dirige verso il bosco, ad un certo punto, mentre percorre un’ampia
strada sterrata appare un segnale che indica “Start of trail”, il percorso ha
inizio!
A
fare da cornice lo spettacolo delle Alpi che accompagna il percorso della donna
che al tramonto monta una piccola tenda e accende un fuoco, è proprio davanti
alla legna ardente che estrae un taccuino e scrive il nome delle sue paure, che se
superate, finiscono nel fuoco impresse nel foglio che viene strappato.
L'indomani incontra, o sarebbe più esatto dire osserva da lontano, alcune persone, senza
che però ci sia alcuna interazione, la paura della gente è una presenza ingombrante
che deve essere sconfitta.
Tutto
scorre tranquillamente, tra il silenzio e i suoni della natura ed il paesaggio
mozzafiato che mostra l’infinita bellezza delle montagne, la svolta avviene
quando affacciatasi ad una radura trova, incagliata al terreno, un’astronave di
provenienza aliena.
Titubante
aggira il veicolo e nota un’apertura anomala, come se qualcuno si fosse fatto
strada dopo aver divelto le pareti, poco lontano, tra gli alberi, ecco il visitatore
straniero, gravemente ferito e riverso a terra, l’alieno porge la mano alla
giovane donna che accetta il contatto, la stretta tra le due mani da vita ad un
collegamento mentale, ne scaturisce una frase: “It esaped, on its skin” (la
traduzione lascia alcune perplessità ma potremmo semplificare con “è scappato
per un pelo” o “sulla sua pelle”, il che potrebbe avere un senso nel proseguo
del film) le mani si dividono alla morte del visitatore e la giovane
protagonista si ritrova nel palmo una piccola sfera.
Qui
il fil lascia le atmosfere idilliache per tuffarsi in un vortice scuro e
angosciante dove il passato le paure
prendono il sopravvento, non sto a raccontare ciò che succede in seguito, ma
dal mio modesto punto di vista vale la pena approfondire, sempre che ci
piacciano i silenzi e le discese negli abissi della mente.
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