venerdì 28 ottobre 2022

Iperrealismo, perché?

Nel 2022, dove la riproduzione fotografica della realtà ha raggiunto livelli incredibili, e a più di un secolo dalla "rivoluzione" della pittura (che si è arresa alla nascente arte fotografica cercando una nuova via) qual è il senso dell'iperrealismo, quale il suo fine artistico?



Dipingo ciò che non può essere fotografato e fotografo ciò che non desidero dipingere”, cosi diceva Man Ray, dipingere ciò che non è fotografabile e fotografare tutto quello che è reale evitando di ricorrere alla pittura.

Se lo posso fotografare perché mai dovrei fare l’inutile fatica di dipingerlo?” anche questa è una citazione, di cui ignoro l’autore, ma che mi spinge a chiedere perché.

La fotografia ha letteralmente sconvolto la pittura, fino all’avvento delle macchine fotografiche era la pittura a dare un volto alla gente (inevitabilmente facoltosi personaggi) o a rappresentare un luogo, dalla fine dell’ottocento e in un continuo crescendo nel secolo successivo (fino all’apice raggiunto oggi) tutto è cambiato, possiamo fotografare facilmente qualsiasi cosa, immortaliamo persone, animali, luoghi, oggetti, tutto è fotograficamente riproducibile.

A quel punto la pittura ha preso una strada diversa, ha cercato di rappresentare tutto ciò che non è rappresentabile con un semplice scatto.

Se non è una pura esibizione di talento cosa spinge un pittore a riprodurre perfettamente un’immagine fotografica? Il dipinto di Campos, nell'immagine, capolavoro di tecnica, cosa aggiunge ad una fotografia che ritrae alcune lattine?

Trovo molto difficile pensare che il pittore riesca a mostrare la propria anima in un dipinto che non permette digressioni (altrimenti non sarebbe iperrealismo) che non da spazio alcuno alla creatività.

Un genere nato da una “costola” dei famosi falsari dell’arte, perfetti realizzatori di copie altrettanto perfette, ma che in quanto riproduttori di idee altrui artisticamente “poveri” se non nulli.

Se le copie d’arte hanno un senso in quanto danno l’opportunità a chi  non ha la possibilità, spesso economica ma non solo, di ottenere gli originali, quale è il motivo che dovrebbe spingere un appassionato d’arte ad acquistare un dipinto iperrealista?

Le mie sono domande a cui non ho saputo dare una risposta, ma al contempo non hanno avuto risposte convincenti nemmeno da chi la pensa diversamente.

In un confronto con un pittore iperrealista, incontrato ad una mostra specifica, è emerso che spesso chi si dedica a questo genere è lontano dall’arte concettuale, questo mi porterebbe a pensare che siamo di fronte a due modi di pensare lontani tra loro e che non abbiano alcuna speranza di incontrarsi, ma al contempo fatico ad accettare questi eccessi “divisionisti”, certo sono concetti opposti ma non si dice che gli opposti, talvolta, si attraggono? 

Il rischio è che l'attrazione di tali opposti metta in atto uno sconvolgimento "mentale" al punto che non riusciamo a mettere in ordine nemmeno ciò che dovrebbe esserlo, se poi il disordine è naturale ...


lunedì 24 ottobre 2022

Le depositarie del tempo a venire le Sibille di Michelangelo

Dal greco Σίβυλλα (profetessa) o dal dorico Siobolla, che a sua volta attinge al Theoboule, dialetto dell’Attica, che significa consiglio o volontà di Dio.

Le sibille rappresentano il sapere futuro, la conoscenza di ciò che deve ancora avvenire, donne realmente esistite o frutto della mitologia greco romana, risiedevano prevalentemente in grotte o lungo corsi d’acqua, o ancora nei pressi dei vari templi dedicati al dio Apollo.

Le sibille più note sono dieci, Persica, Libica, Eritrea, Cimmeria, Delfica, Ellespontica, Cumana, Samia, Tiburtina e Frigia, tutti i nomi sono legati al luogo in cui risiedevano le veggenti.

All’interno della Cappella Sistina Michelangelo si limita a raffigurarne cinque (Cumana, Delfica, Eritrea, Libica e Persica)

Viene da chiedersi perché Michelangelo ha inserito queste figure che stridono con il contesto della “Sistina”, quest’ultima è la raffigurazione del nuovo e vecchio testamento, è il fulcro della cristianità, le sibille, al contrario rappresentano ciò a cui il mondo cristiano si oppone, il paganesimo.

Ma le profetesse hanno, in modi e tempi diversi, annunciato l’avvento di Cristo e dunque sono degne di far parte della Cappella Magna. Inoltre la scelta di raffigurarne solo cinque è probabilmente dovuto ad un forma di rappresentanza che sottolinea la presenza territoriale della “Parola di Dio”, la Cumana per L’Italia, la Delfica per la Grecia, la Persica per l’Asia e la Libica a rappresentare i territori africani.

Le loro “storie” sono narrate negli affreschi utilizzando la raffigurazione simbolica, sono innumerevoli le fonti e le interpretazioni, cosi come i particolari che lasciano spazio ad infinite letture.

Brevemente alcuni dei molteplici e curiosi particolari che le caratterizzano.


La Sibilla Cumana viene rappresentata nelle vesti di una donna anziana dal volto rugoso e quasi deformato, dalle Metamorfosi di Ovidio la risposta: “Febo mi disse: ”esprimi un desiderio vergine cumana: sarà esaudito”. Io presi un pugno di sabbia e glielo mostrai chiedendo che mi fossero concessi tanti anni di vita quanti granelli di sabbia c’erano in quel mucchietto. Sciocca mi scordai di chiedere che gli anni fossero di giovinezza.”



La Sibilla Delfica, senza dubbio la più “bella” viene raffigurata con un incisivo in più, essendo vissuta prima dell’avvento di Cristo il difetto mette in evidenza l’imperfezione, pur nell’indiscutibile bellezza, dovuta alla lontananza dal concetto di “vera fede”.



La Eritrea sfoglia il libro delle profezie, a lei è attribuito il vaticinio sul giudizio universale, dietro il volume vediamo due assistenti, il primo accende una lampada, simbolo della luce della conoscenza che prende vita, il secondo si è appena svegliato e simboleggia il risveglio delle anime nella sapienza.



La Libica è una donna di grande eleganza e leggerezza, al contempo forte e autorevole, con una torsione del busto (uno dei punti più alti della tecnica pittorica di Michelangelo) si accinge a prendere il pesante libro per portarlo dinnanzi a sé e leggerne le profezie contenute, il gesto non può non portarci alla Vergine che, nel Tondo Doni, compie lo stesso gesto per prendere tra le braccia il piccolo Gesù.


La Sibilla Persica è la più antica, secondo le fonti più autorevoli, vecchia e ingobbita mostra il suo essere antico, la gobba stessa è un simbolo importante, la forma ricorda la luna calante ed è rivolta ad est a rappresentare l’era delle profezie che si avvia a tramontare nel sorgere del sole in Cristo.



giovedì 20 ottobre 2022

Situazioni casuali (quando il caso non è abbandonato a sé stesso)

“Per ottenere quella precisa situazione ho dovuto aspettare tutto il giorno!” 

foto by Elliott Erwitt - Prado Museum, Madrid, 1995

Queste parole di Elliott Erwitt confermano che la fotografia non è mai lo specchio di ciò che succede ma il momento in cui si decide di fermare il tempo.

1995, siamo all’interno di una sala del Museo del Prado a Madrid dove sono esposte due tra le più celebri opere di Francisco Goya, La maja vestida La maja desnuda.

Il tempo viene “bloccato” dal fotografo, dietro uno scatto c’è sempre un comportamento arbitrario, non parlo delle fotografie costruite a tavolino, infatti Erwitt non mette in posa i visitatori (almeno cosi afferma) ma attende pazientemente che si crei quell’insieme desiderato.

Questa celebre fotografia incarna i comportamenti, in parte reali e in parte frutto di un’idealizzazione che ci siamo costruiti nel tempo, fatta di stereotipi più o meno suffragati dalla realtà, raccontando ciò che lo stesso artista “vede” o quello che vuole che gli altri vedano.

Il fotografo attendeil momento opportuno per "costruire l'istante", avrebbe potuto scattare ripetutamente lasciando che il risultato, casuale, prenda il sopravvento, ma Erwitt aveva ben chiaro l’obbiettivo di quella giornata, assecondare l’ideale della donna impegnata artisticamente e l’uomo impegnato … in altri ambiti.

Il risultato finale è decisamente suggestivo (ammetto che seppur forzato è un concetto, purtroppo, tutt’altro che campato in aria) ma non è su questo che voglio focalizzarmi, ad interessarmi maggiormente è l’idea che la fotografia sia (come spesso viene definita) lo specchio della realtà, arrivando alla conclusione che la realtà stessa sia una mera illusione e di conseguenza anche la fotografia si riveli tutt'altro.

Non mi permetto di mettere in discussione le parole del fotografo ma se prestiamo attenzione non possiamo escludere che i personaggi che popolano la fotografia, in particolare per come sono disposti, qualche “indicazione” l’abbiano ricevuta.


domenica 16 ottobre 2022

Esperti d'arte, veri o presunti

Quale sia la verità assoluta non lo sapremo mai, ma restano molte le perplessità riguardo alla notizia, di qualche tempo fa, della “scoperta”, nei magazzini dell’Accademia Carrara a Bergamo, di un’opera di Andrea Mantegna, “Resurrezione di Cristo”.

Andrea Mantegna (?) Resurrezione di Cristo, 1500-05   Tempera su tavola cm 48 x 37 Accademia Carrara, Bergamo 

Le perplessità non riguardano l’attribuzione del dipinto ma l’effettiva affidabilità degli “esperti” d’arte, storici con anni di esperienza alle spalle che sostengono di conoscere a fondo questo o quell’artista.

Non mi permetto di mettere in discussione le conoscenze di chi ha attribuito quest’opera al Mantegna ma a questo punto sorge un interrogativo: se questo è un Mantegna autentico gli “esperti” che hanno visionato il quadro negli ultimi duecento anni, ritenendo il dipinto una copia, che credibilità hanno?

E se i cosiddetti “conoscitori” del passato avessero avuto ragione cosa ne è di questa “scoperta”?

Se questa notizia può servire a dare visibilità alla pinacoteca dell’Accademia Carrara ben venga, penso infatti che la collezione del museo bergamasco sia di primissimo livello e meriti attenzione.

Resta inspiegabile il fatto che per duecento anni il quadro sia rimasto nei magazzini (non è mai stato esposto) considerato una copia di media qualità, e tutto d’un tratto si sia trasformato in un capolavoro assoluto da quasi trenta milioni di euro (da quali basi nasca la stima non è risaputo).

Evidentemente il dipinto è sempre lo stesso, quelli che dovrebbero dare un giudizio storico e critico  no, perlomeno non è lo stesso il metodo che porta all'attribuzione.


mercoledì 12 ottobre 2022

L'arte involontaria può essere considerata arte?

Voglio addentrarmi in una riflessione che definire complessa significa sminuirne il senso, desidero parlare di qualcosa che potrei definite non-arte, o se preferite dell’arte involontaria, il modo di trasformare oggetti di uso quotidiano e trasformarli con l’inserimento della parola in manufatti artistici.

 

Non mi riferisco a ciò che è stato fatto nel recente (più o meno) passato, i ready made di Duchamp ad esempio, voglio andare oltre la volontà artistica.

L’opera in questione, che vediamo nell'immagine, conosciuta come i “Funghi”, è stata realizzata da un artista anonimo del nord Europa, il titolo è: “Il riparo dei desideri irrealizzati” un’opera di arte ambientale che potrebbe raccontare l’impatto nel quotidiano della plastica (che però viene vista come riparo del legno sottoposto al degrado del tempo, soluzione forse efficace ma tutt'altro che "green").

Dico potrebbe perché questa “realizzazione” (non saprei come definirla diversamente) è di mio padre che, anni fa,  ha trasformato una siepe di abeti, morta, in una recinzione “diversamente logica”, ha lasciato i tronchi con il compito di assicurare un riparo ai mezzi in transito che altrimenti potevano sbandare e cadere nella scarpata a fianco del viale d’accesso della propria abitazione. Per impedire che l’acqua facesse marcire il legno ha coperto i tronchi con dei “cappelli”, dopo che le varie resine isolanti si sono dimostrate inefficienti.

Amici, parenti, conoscenti, davanti a questa recinzione, hanno avuto la stessa reazione, prima lo stupore per l’insolito steccato, poi la frase che si ripeteva ad ogni occasione: “sembra un’opera d’arte contemporanea”, detto tra il serio e il faceto (quasi sempre la seconda).

Naturalmente niente di tutto ciò è da considerare arte ma se riavvolgiamo il “nastro”, dimentichiamo ciò che ho detto, torniamo alle prime righe, fingiamo che sia il lavoro di un ipotetico artista (decidete voi la cittadinanza e la nazionalità) e prendiamo per buono il titolo che gli ho affibbiato, cosa potremmo pensare?

Chiunque può, a ragione, ribadire che non si tratta di arte, cosa in effetti vera, ma siamo sicuri che lasci totalmente indifferenti? Non tanto nel fatto che l’opera in sé sia arte ma se pensiamo che molti “lavori” ambientali e concettuali siano considerati (a ragione) arte seguendo le stesse dinamiche dei tronchi in questione non possiamo essere categorici, semmai l’unica eccezione sta nella volontà di definire il manufatto.

Se la recinzione in questione (comunque distrutta dal tempo che si è fatto beffe anche dei "ripari" in plastica) fosse stata realizzata con lo scopo di dare vita ad un’opera d’arte cambiava qualcosa concettualmente?

sabato 8 ottobre 2022

Fiere d'arte e arte da fiera

Il confine tra la performance artistica ed il fenomeno da baraccone è sottilissimo, sempre più labile.

Nel 2014 Sven Sachsalber, nelle sale del Palais de Tokyo a Parigi, fa “costruire” un pagliaio al cui interno viene nascosto un ago, l’artista italiano si da 48 ore per ritrovarlo e ci riesce in 18.


Per poter definire arte tutto questo potremmo rifarci a Duchamp “è arte se l’opera è scelta dall’artista ed è esposta in un museo o in un luogo deputato all'arte stessa”, ma a questa performance mancano i requisiti.

Non sono il pagliaio o l’ago al centro della scena a destare alcune perplessità ma la ricerca, la "gara" a chi lo trova nel minor tempo, quest'ultimo particolare rende complicata l'idea di definire l’insieme “concettuale”.

Da un altro punto di vista potrebbe prendere in considerazione la "visione proiettata in avanti” ma anche da questo punto di vista la performance è tutt'altro che innovativa.

Chi mi conosce sa che non mi permetterei mai di dare un giudizio definitivo, sono aperto a tutte le nuove proposte artistiche, solo che non riesco a scorgerne una profondità di pensiero, sembra (a me che probabilmente non ho le giuste conoscenze) un rifacimento di qualcosa di “già visto”, come in una vecchia fiera di paese dove il fenomeno di turno scommetteva con gli astanti di essere in grado di fare ciò che sembra impossibile.

Idea artistica sarebbe potuta essere quella che spinge ad andare oltre le scarse probabilità di trovare il fatidico “ago nel pagliaio” senza però che venisse messo in moto il meccanismo di ricerca, se non psicologica.

Cos’ha di artistico un mucchio di fieno (o paglia, con il fieno è più difficile) dove più o meno casualmente (ecco che torna il fenomeno da fiera) viene nascosto un ago e per concludere chi ce lo ha messo scommette di trovarlo entro un determinato tempo?

Qual è il fine ultimo (sempre artisticamente parlando) di tale performance? Non credo che il fatto di riuscire nell’impresa in meno della metà del tempo previsto sia di per sé un’esibizione tale da definirsi “arte”, semmai è una dimostrazione di destrezza, ma anche a questo livello, nel secondo decennio del XXI secolo, “un senso non ce l’ha”.

Mi ricorda quella moltitudine di pittori che danno vita a lavori, talvolta tecnicamente eccelsi, ma che non hanno il crisma dell’opera d’arte per il semplice motivo che al loro interno non hanno un’idea innovativa, un concetto che non sia visto e stravisto (spesso non hanno un’idea e basta).

Certo, almeno questi pittori (o alcuni di loro) mettono in campo una discreta, se non eccellente, tecnica, cosa che il nostro Sachsalber non ci mostra, almeno in questo lavoro, ma alla base c’è sempre l’assenza di un pensiero artistico, quel pensiero che immobilizza e ci impone una riflessione più profonda. Davanti a questa esibizione il primo pensiero è: “l’ago è stato inserito in modo casuale o no? E siamo sicuri che ce ne sia solo uno?”. In poche parole: “dove sta il trucco?”.

Questa è una riflessione che normalmente si fa ad una sagra davanti al classico "baraccone", non davanti ad un’opera d’arte.

Tutto ciò non toglie che io stesso abbia dei limiti di comprensione, dovrò sicuramente applicarmi di più, chissà che il tempo tolga quel velo che mi divide dall’opera, non so se accadrà ma quantomeno me lo auguro.


sabato 1 ottobre 2022

Alla ricerca del sound perduto (apparentemente)

I supergruppi rock sono un mito o quantomeno sono il risultato di percezioni personali abbinate ad esperienze e contaminazioni.

Creare un supergruppo è un’accademica e cervellotica esibizione senza “rete” ma si può trasformare in un piacevole passatempo, un rilassante esercizio di memoria musicale condito da una parziale critica soggettiva.


Potremmo prendere il chitarrista che più amiamo, affiancarlo al bassista che ci intriga maggiormente, a questi aggiungiamo il “drummer” che ci riaccende gli animi e, se pensiamo sia necessario, il frontman, l’animale da palcoscenico, che ci emoziona.

Un tentativo che ci permette di viaggiare sulle ali della fantasia ma su cui una cosa certa c’è, non sapremo mai (o lo possiamo intuire) se in un gruppo costruito a tavolino, e nonostante il talento immenso dei musicisti (mi auguro che ognuno di noi inserisca gente di un certo livello) ci possa essere quella “chimica” che fa di un gruppo un supergruppo.

Un esempio di una band costruita artificialmente sono senza dubbio i “Traveling Wiburys”, dove musicisti del calibro di Bob Dylan, George Harrison, Jeff Linne, Tom Petty e Roy Orbison si sono uniti dando vita, dal 1988 al 1990, a tre album, di cui due in studio.

Il risultato, seppur interessante e musicalmente piacevole, non è stato la somma del talento, tecnico e concettuale dei componenti.

A questo punto, curioso di trovare il supergruppo, con tutte le limitazioni del caso, mi sono affidato alle varie classifiche rock, musicista per musicista, ho cercato di capire quale gruppo realmente esistente avesse i musicisti migliori.

Incrociando i moltissimi dati a disposizione sono giunto ad un risultato che, personalmente, ritengo soddisfacente.

C’è una band che ha messo “in campo” (o meglio sul palco) il secondo chitarrista di sempre, il terzo batterista e il quinto bassista.

I nomi sono arcinoti, anche se si sono esibiti assieme per pochi anni, Eric Clapton, Ginger Baker e Jack Bruce, il gruppo è quello dei Cream.

I tre componenti sono star assolute, penso che non ci siano dubbi sulle qualità di questi mostri sacri e chi conosce la discografia dei Cream, al di là dei gusti personali, non può ignorare quale influenza abbiano avuto sulle band successive.

Come dicevo si tratta di un esercizio effimero dettato da una nostalgica passeggiata nel tempo (passato) l’occasione di riascoltare i fautori della colonna sonora della nostra (mia) vita, il risultato a cui sono giunto non serve ad altro che a fare emergere quello che in fondo non era mai scomparso nelle profondità di quel oceano musicale chiamato rock.