sabato 30 dicembre 2023

Un’autentica opera d’arte

L’album d’esordio del poliedrico e geniale musicista britannico è senza dubbio il punto più alto di una carriera che ha "viaggiato" costantemente su livelli eccellenti.

Siamo nel 1973, Mike Oldfield, allora diciannovenne, rivoluziona il panorama musicale proponendo una visione nuova in un panorama in costante evoluzione.

Sono due i brani all’interno del “33 giri”, Tubular bells (part. I) e Tubular bells (Part.2) entrambi sono prevalentemente strumentali, ad eccezione di inserimenti di voci “elaborate” e cori diretti dallo stesso Oldfield.

Il mito racconta che Mike Oldfield ha suonato da solo tutti gli strumenti nella registrazione dell’album, mito fino ad un certo punto perché in effetti la maggior parte della strumentazione è utilizzata da lui ma non vanno ignorati altri musicisti che hanno collaborato alla realizzazione del disco.

L’album inizialmente viene accolto timidamente ma l’uscita nelle sale nello stesso anno del celebre film L’esorcista, della cui colonna sonora fa parte il primo brano dell’album, lo proietta al primo posto nelle vendite del Regno Unito.

La musica di Tubular bells (o quantomeno l'intro del primo pezzo) porta inevitabilmente al film di William Fredkin, cosi come è innegabile che lo stesso percorso si possa fare al contrario,  musica e film sono legati indissolubilmente l’uno all’altro.

Ma “l’opera d’arte”, che da il titolo al post, non è legata solamente ai brani di Oldfield, se si parla di capolavoro non possiamo non riferirci alla copertina realizzata dal fotografo Trevor Key, su suggerimento dell’allora addetta stampa di Oldfield Sue Steward (almeno per quanto riguarda lo sfondo marino).

Le “campane tubolari” piegate a triangolo sono nate da un'intuizione di Key dopo che lo stesso Mike ne aveva danneggiate alcune durante la registrazione dell’album, il risultato è visivamente e concettualmente perfetto.

Oggi, nel 2023, il "tubo" di Key proietta lo sguardo al futuro, una visione che si spinge oltre il nostro contemporaneo, se pensiamo che è stato realizzato cinquant'anni fa ...

Sembra che dopo aver visto la cover Oldfield abbia voluto ridurre al minimo le scritte che citavano il titolo e l’autore dell’album, oltre ad averle volute colorate di arancione, questo per evitare di distogliere lo spettatore dall’immagine.

In questo caso musica e grafica viaggiano sui binari dell’eccellenza, se aggiungiamo le suggestioni cinematografiche che ci accompagnano il triangolo artistico è completato.

A seguire vi propongo l’album per intero, l’intro ci porta direttamente al film ma non dobbiamo fermarci a questo, l’intero disco è una scoperta continua, soprattutto se sappiamo andare, con la mente, indietro nel tempo, cercando di “vedere” in quale contesto si è inserito questo capolavoro.


venerdì 22 dicembre 2023

L'essenza come risultato dell'assenza (della superficialità)

L’essenza, il fulcro, la sostanza, tutto ciò che veramente conta, la struttura portante di qualsiasi componente dell’universo, sia che si tratti di materia, di spirito, di un’idea.

Spesso, se non sempre, quest’essenza è ammantata, rivestita di superficialità, un modo utilizzato per renderla più comprensibile ma anche più appetibile, più interessante

Il Natale ne è l’esempio più evidente, luci, colori, immagini bucoliche, coprono (o forse sarebbe meglio dire abbelliscono) il vero significato di questo giorno (periodo) tutto è reso più godibile, più interessante dalla vasta proiezione cromatica, dal sempre attraente richiamo culinario, dai numerosi, e a volte inutili, regali.

Non è mia intenzione demonizzare tutto questo, anch’io sono nella mischia e non mi comporto diversamente, solo che penso sia interessante fermarsi, anche solo per un istante, a chiederci cosa ci sia sotto lo strato di superficialità.

A volte l'essenziale può essere riconoscibile in quanto la veste esteriore è più leggera, in altre occasioni dobbiamo scavare a fondo per trovarne l'anima, in ogni caso se volgiamo lo sguardo in profondità, senza arrenderci al primo "inganno" visivo, l'essenza di ogni cosa si rivela.

Ognuno percepisce l’essenza in modo personale, i regali sono importanti, ancora più importante il contatto umano che nasce da questa festività (al netto dei contrasti inevitabili in certe famiglie) per chi è credente l’essenza del (Santo) Natale è legata alla religione, d’altro canto è questa la base da cui parte il tutto.

Come augurio a tutti voi, di un Natale sereno, voglio proporre una mia visione personalissima dell’essenza natalizia, o più in generale dell’essenza di ogni cosa che ci circonda.


L'essenza del Natale (Part.1) Essenza delle forme - Acrilico su cartoncino,  cm 21 x 30


L'essenza del Natale (Part.2) Essenza della materia - Legno, lamiera carbonizzata, alluminio, cm 29 x 18 x 17


L'essenza del Natale (Part.3) Essenza del tempo - Fotografia 


venerdì 15 dicembre 2023

E se ... L'accesso ai materiali avrebbe potuto cambiare la storia dell'arte?

Mi chiedo: nei secoli passati le difficoltà nel reperire e nel "costruire" i materiali, che in seguito avrebbero dato vita all'opera d’arte, non erano un freno al concetto artistico? Alla proiezione di un’idea personale?

Duccio di Buoninsegna – Maestà (part.) 1308-11 – Tempera su tavola cm 214 x 412 – Museo dell’Opera del Duomo, Siena.


Il pittore-pittrice (anche se al tempo le seconde non potevano esercitare, almeno ufficialmente) come avrebbe potuto dare vita ad autentiche rivoluzioni senza la facilità nel reperire supporti e colori?

É una questione culturale e sociale oppure è proprio la rivoluzione dei materiali, accessibili a costi contenuti, che ha dato vita alla pittura dall'impressionismo in poi?

Sono un appassionato d'arte in generale e di quella contemporanea in particolare, per questo mi sarebbe facile sostenere l’ipotesi contraria, ma è innegabile che oggi sia più facile sperimentare, azzardare, rischiare, proprio per il limitato danno economico nel caso di un'opera non riuscita.

Se pensiamo ai costi esorbitanti e alla necessità di personale impegnato a trasformarli in colori, cosa poteva fare un artista senza una commissione? Era sicuramente complicato realizzare opere con sfondi dorati, con il celebre blu oltremare (i lapislazzuli costavano un autentico occhio della testa) senza che qualcuno ne chiedesse la realizzazione finanziando materiali e bottega.

Ai giorni nostri chiunque si può permettere una tela e dei colori in tubetto (costi accessibili e nessuno a libro paga per crearli) sperimentare è facile ed economicamente praticabile, non riuscire nell’impresa non è un dramma, ci si può riprovare.


Hans Hartung – Untitled, 1948 – Olio su tela cm 97,2 x 146 – MoMA (Museum of Modern Art) New York

Non so se a dare la svolta epocale che ha visto, dalla seconda metà dell’ottocento, l’arte trasformarsi in modo deciso, sia stata solo la nascita della fotografia (imprescindibile) e una visione futuribile data dalle rivoluzioni in atto ma è innegabile che i grandi artisti del passato non erano da meno, magari limitati dalle pressioni (clero e nobiltà) che tenevano le redini della società.

Se molti pittori avessero avuto accesso pressoché illimitato a ciò che serve per “creare” con la pittura quello che conosciamo della storia dell’arte sarebbe immutato o l’evoluzione avrebbe preso strade diverse?

Come sempre i miei quesiti non hanno risposte certe, e probabilmente neppure le cercano, il mio è un modo di vedere il passato da prospettive diverse. Quello a cui assistiamo oggi è frutto ovviamente di esperienze passate, ma se queste ultime fossero state differenti …

domenica 10 dicembre 2023

Simboli e rappresentazione di uno stato d'animo, Giovanni Segantini

Per comprendere questo dipinto dobbiamo conoscere, almeno per sommi capi, l’infanzia di Giovanni Segantini e il rapporto conflittuale con la maternità.

Giovanni Segantini  - Le cattive madri, 1894 olio su tela 120 x 225 - Österreichische Galerie Belvedere di Vienna


Nato ad Arco, località tirolese allora appartenente all’impero austriaco, e influenzato dalla quotidianità della vita in montagna, perde la madre a soli sette anni, il padre decide di affidarlo alla figlia avuta in un precedente matrimonio, il distacco è traumatico, infatti la donna viveva a Milano, la scelta, come possiamo bene immaginare, non è stata delle migliori.

L’allontanamento dalla famiglia e dall’ambiente in cui era cresciuto, la convivenza con un’estranea che non si prende cura del fratellastro sono motivi sufficienti per dare vita ad un sentimento contrastante verso la figura materna.

Va inoltre presa in considerazione l’influenza che un piccolo poema scritto da Luigi Illica, intitolato Nirvana, ha su Segantini, autentico divoratore di libri. Lo scritto di Illica a sua volta si ispira ad un poema del monaco medievale Alberico da Settefrati.

Nelle pagine del religioso di Settefrati, da cui il nome, raccontano di alcune donne che hanno rinunciato al loro naturale ruolo di madre che sono relegate in una sorta di purgatorio ghiacciato dove espieranno la loro colpa.

È altresì doveroso contestualizzare il tutto, Segantini nasce nel 1858 e realizzerà l’opera in questione nel 1894.

Le colpe di una madre assente, come nel caso di quella del pittore, sono praticamente nulle ma probabilmente non è cosi per il piccolo Giovanni che forse avrebbe potuto prendersela più con il padre che lo ha allontanato, anche se viste le precarie condizioni economiche della famiglia Segantini (forse è il caso di parlare di estrema povertà) il gesto del padre aveva una certa logica.

Il dipinto è la rappresentazione del luogo evocato da Illica e Alberico, in quanto si tratta di una landa spoglia e fredda, dove il ghiaccio e la neve la fanno da padrone.

Ma tutto il resto è partorito dalla percezione del pittore dove le sue amate montagne emergono maestose, infatti sullo sfondo appare con tutta la sua forza una catena montuosa che si allontana sulla destra, unico punto dove il sole riesce ad illuminarne le vette.

A "colpire" l'osservatore è senz’altro l’albero in primo piano, spoglio apparentemente senza vita, dal tronco partono due rami che cercano di prendere strade differenti ma che sembrano piegati dai freddi venti, lo sforzo da vita ad un arco che si contrappone alla “curva” opposta realizzata dalla donna che, imprigionata dall’albero stesso, cerca disperatamente di liberarsi.

La donna, seminuda, cerca di divincolarsi dalla morsa mentre sotto il braccio destro appare la testa di un bambino che tenta di raggiungere il seno materno, una scena dove il simbolismo dell’opera raggiunge il suo apice.

Nella parte sinistra, in secondo piano, troviamo un altro aspetto quasi sconvolgente nella sua profondità, una donna, anch’essa imprigionata da un albero, ode la voce del proprio bambino che, collegato alla madre tramite le radici, cerca di emergere dai ghiacci dell’oblio.

Questo è il percorso in tre fasi necessario per espiare la colpa e tornare a rivedere la “luce”. Il figlio che emerge dal ghiaccio è il primo passo, il secondo è rappresentato dalla scena in primo piano, mentre dietro alla donna a sinistra vediamo altre due madri che avendo affrontato i primi due passaggi si incamminano verso la redenzione, il Nirvana appunto, citato dal poemetto di Illica.

Segantini però probabilmente cerca un riscatto in quanto figlio abbandonato, più che una redenzione delle madri sembra che sia il desiderio dei figli di avere a loro volta una possibilità.

Opera complessa che potrebbe fare discutere, in un tempo (il nostro) dove il revisionismo applicato al politicamente corretto, impedisce di collocare qualsiasi cosa nel proprio tempo, se davanti a questo dipinto non abbandoniamo il nostro punto di vista e ci immergiamo in quello di fine ottocento, rischiamo di perderci in oscure varianti mentali che storpiano la narrazione fino a cadere nell’errore di darne un giudizio.

Nel 1897, due anni prima della prematura scomparsa, l’artista tirolese realizza una copia monocroma su cartoncino che rende ancor più tragica la costruzione in immagini di una profonda sofferenza.

In quest’opera oltre alla testa del bambino che emerge dalla neve e la donna prigioniera dell’albero, già presenti nel dipinto originale, notiamo due donne che avanzano liberamente senza alcun vincolo, chiara rappresentazione dell’avvenuta espiazione e del viaggio verso una nuova vita.

Opera monocroma su cartoncino (cm 40 x 74) custodita alla Kunsthouse di Zurigo


martedì 5 dicembre 2023

Un'altra occasione sprecata?

Yayoi Kusama, l’artista giapponese definita dai media “la più amata al mondo” (come sempre l’importante è esagerare, se pensiamo che questa definizione sarebbe un valido sostegno ad una tesi contraria ...) dal 17 novembre è “presente” a Bergamo nell’ambito di: “Bergamo-Brescia capitali della cultura 2023”.


Il successo di pubblico è stato immediato, già nei primi giorni di maggio, quando ha preso il via la prevendita, i biglietti sono andati a ruba al punto che la prevista conclusione della mostra (?) prevista per il 14 gennaio 2024, è stata posticipata al 24 marzo.

Anche in questo caso il tagliandi d’ingresso, all'inizio c'erano a disposizione più di 22 mila e con la proroga sono diventati il triplo, sono andati esauriti.

Tutto bene e tutto bello, almeno secondo gli organizzatori, ma di artistico e culturale in questa … mostra, che mostra non è, non vi è traccia.

All’interno del Palazzo della Ragione troviamo solamente un’installazione, che di per se è tutt’altro che insignificante, ma che è la sola opera esposta, cosa che viene volutamente tenuta nascosta, o perlomeno relegata in secondo piano (altrimenti come giustificare il prezzo d’ingresso?)

E non è la quindicina di euro a spostare gli equilibri di un bilancio economico famigliare, ma a lasciare perplessi è il fatto che all’interno dell’installazione ci si può rimanere solo per 60 secondi.

Sicuramente interessante il lavoro della Kusama, “ Fireflies on the Water”, un’esperienza intima e profonda ma che necessita di molto più tempo.

All’interno della sala ci si trova in un ambiente buio circondato da specchi, al centro uno specchio d’acqua che vuole trasmettere il senso di quiete, appese al soffitto 150 luci a rappresentare le lucciole del titolo, un ambiente dove i riflessi dell’acqua e degli specchi moltiplicano le luci. Tutto poeticamente magico ma che non può essere tale se il tempo a disposizione è di un misero minuto.

Ogni visitatore entrerà nello spazio creato dall’artista giapponese ma non riuscirà nemmeno a guardarsi attorno che verrà invitato ad uscire per permettere ad altri di vivere la stessa (inutilmente vuota) esperienza.

Cultura zero, arte poca, business tanto, si ha la sensazione di essere al cospetto di un’occasione buttata al vento, un evento messo in atto esclusivamente a fini di lucro.

A confermare l’assenza di ogni pretesa che vada oltre il “parco a tema” ci sono gli articoli di alcune testate, nazionali e locali, che galleggiano in superficie, un esempio  sono queste righe che svelano il valore di questo avvenimento: ”un’occasione di vivere un’esperienza intensa da poter poi condividere sui social”.

Il sindaco di Bergamo, Gori, ha dichiarato, riguardo alla corsa al biglietto: “non si era mai vista una cosa simile per una manifestazione d’arte”, peccato che quella messa in scena a Bergamo sia si una manifestazione ma di “arte” c’è poco o nulla.

Peccato perché Yayoi Kusama ha moltissimo da dire, artista a tutto tondo che, ha saputo dirigere il proprio pensiero cavalcando l’onda lunga del “pop” ma evitando di ripetere metodo e concetti cari alla Pop Art dei decenni scorsi.

Philippe Daverio ha sempre insistito sul fatto che per godere di un’opera d’arte fosse necessario tutto il tempo utilizzato normalmente per visitare un’intera mostra, pensare che siano sufficienti 60 secondi per entrare nel mondo creato dalla Kusama è un’assurdità.

Ma forse oggi è questo che vuole il visitatore medio, una mostra celebre (se i biglietti sono introvabili meglio perché il vanto sui social acquisisce valore) un tempo ridotto che non richiede impegno intellettuale e la possibilità di scattare qualche foto (da alcune ricerche sembra che le mostre dove è vietato fare selfie sono meno appetibili) ingredienti che permettono di dare vita a “piatti” multicolore ma senza alcun sapore.

giovedì 30 novembre 2023

La bellezza e la sua forma

Tempo addietro, agli albori di questo blog (qui per chi fosse interessato) avevo presentato una piccolissima carrellata di opere del pioniere di una “corrente” destinata a cambiare il corso della storia dell’arte, mi riferisco all’impressionismo.

Camille Pissarro – Paesaggio a Chaponval, 1880 - Olio su tela cm 54 x 65 - Musée d’Orsay, Parigi


Il pittore nativo di St. Thomas ci mostra un paesaggio ordinato, lieve, quasi immobile nella sua eterna bellezza, con una ristretta gamma cromatica riesce a costruire quell’essenza armonica che solo le grandi opere sono in grado di creare.

La donna e la mucca al pascolo in primo piano si stagliano da verde prato pur facendone parte, lo stesso vale per le case, le colline in lontananza e il cielo sullo sfondo, sono perfettamente distinguibili ma si fondono gli uni negli altri.

Ad emergere non è un particolare della scena ma la serenità che la stessa convoglia verso lo spettatore, anche i tetti delle abitazioni, insolitamente di una sfumatura di blu, sono immersi naturalmente in uno schema quasi perfetto, tutto in assoluto equilibrio.

Benché il soggetto sia tutt’altro che originale è innovativo il concetto espresso da Pissarro in quanto ci mostra una visione bucolica di un mondo che spesso non lo è, anche se l’apparenza ci dice altro.

Quest’opera, al contrario di molte altre che oggi ci presentano lo stesso soggetto, è la narrazione di un tempo diretto verso un’evoluzione artistica, sociale e culturale che aveva ancora poco più di trent’anni davanti a sé, prima che alcuni avvenimenti nefasti ne troncassero la crescita.

sabato 25 novembre 2023

I (miei) riferimenti artistici oltre il tempo

Pensare alla situazione attuale e reinterpretarla con l’arte.

Cosa può rappresentare il momento che stiamo attraversando, non tanto riguardo alla causa quanto alle sensazioni che proviamo quando cerchiamo di osservare da una certa distanza un insieme di fattori al limite dell’assurdo.

Lucio Fontana - Concetto spaziale, attesa 1964

Gli eventi di questo momento storico mi portano ad un’opera di Lucio Fontana, un taglio netto nella tela e la differente interpretazione che può essere “trasposta” al nostro quotidiano.

Il taglio, se osservato con una certa distrazione, può apparire come una ferita inferta alla perfezione alla tela, senza approfondire non ci resta che il rimpianto della purezza perduta, una concezione che ci ha portato ad escludere tutte le possibili varianti.

Ma se andiamo oltre la visione che ci ha accompagnato fino ad ora ecco che tutto muta, la ferita inferta, con apparente violenza, si trasforma in una nuova opportunità.

“Concetto spaziale, attese” è il “nome” dato da Fontana a queste sue opere, se sappiamo andare oltre il canonico modo di vedere ciò che abbiamo di fronte, tutto si trasforma in un’occasione per crescere, il “taglio” non è più un’offesa, diventa il simbolo di rinascita.

Da quella fenditura, nella tela come nel tempo, può scaturire ciò che desideriamo, dobbiamo avere la pazienza di attendere e la convinzione che tutto è possibile.

E se dal “taglio” non dov’esse emergere nulla? L’apertura che prende forma per mano dell’artista ha comunque altre possibilità, può trasformarsi nell’invito ad entrare in una dimensione altra, forse migliore, sicuramente più aperta, dove la visione del tutto è a portata di mano, oppure non ci resta che attendere, anche all’infinito.

Ma è l’infinito il vero obbiettivo di Fontana? Non lo sappiamo con certezza ma sarebbe il fine ideale per un’opera spesso sottovalutata, sovente derisa, solo in poche occasioni considerata per quello che veramente rappresenta, per quello che significa per la storia dell’arte degli ultimi settant’anni e per ciò che trasmette ai giorni nostri.

lunedì 20 novembre 2023

l'immensità delle piccole cose.

Dai primi giorni di ottobre è in “scena" a Milano, nelle sale di Palazzo Reale, una mostra personale dedicata a Giorgio Morandi, il pittore bolognese era assente dal capoluogo lombardo da più di tre decenni, un vuoto che finalmente viene colmato.

Giorgio Morandi – Natura morta, 1951 - Olio tela cm 24,5 x 32 - Collezione privata


Artista sottovalutato dagli stessi amanti dell’arte e pressoché ignorato dal grande pubblico, Morandi incarna la visione intima e apparentemente semplice del vivere quotidiano dove le piccole cose, quelle che riteniamo banali in quanto utilizzate giornalmente per i nostri bisogni basilari, si ergono ad assolute protagoniste.

Sono proprio gli oggetti meno eclatanti, bottiglie, brocche, tazze, bicchieri, barattoli, a prendere possesso del centro della scena, posizionati su mensole, sopra ad un tavolo spoglio o inserite in un contesto dove è il vuoto a circondare i “protagonisti”.

L’influenza degli “sperimentatori” che nei primi decenni del 900 dettavano l’agenda artistica, in particolare la metafisica di De Chirico, non ha attecchito più di tanto, Morandi ha preferito seguire una personalissima strada che indaga i pensieri complessi all’interno delle piccole cose.

I suoi dipinti accompagnano lo spettatore in una “meditazione” dove la superficialità lascia il posto alla profondità, uno spazio intimo che ad un primo sguardo sembra quantomeno improbabile.

La mostra milanese, dal titolo “Morandi 1890, 1964” sarà visitabile fino al 4 febbraio 2024.    

mercoledì 15 novembre 2023

Chi, o qual è, il soggetto principale? L'opera nell'opera

 


Il famosissimo storico dell’arte statunitense Bernard Berenson (Bernhard Valvrojenski) elegantemente ammirato dalla scultura di Antonio Canova, la statua raffigura Paolina Borghese, altrettanto nota sorella di Napoleone Bonaparte.

La scultura è ripresa di spalle, al centro della scena c’è dunque Berenson.

L’opera in questione è senza dubbio la fotografia di David Seymour, il soggetto è il critico americano, mentre il capolavoro di Canova funge da “narrazione”.

Spesso, per non dire quasi sempre, ci imbattiamo in fotografie che immortalano opere d’arte, se l’opera è l’unico soggetto ripreso la fotografia non viene minimamente presa in considerazione (davanti ad uno scatto che riprende i Girasoli di Van Gogh, ad esempio, per noi si tratta del dipinto del pittore olandese e non di una riproduzione dello stesso) nel caso un’opera faccia parte di una “scenografia” più complessa allora è la fotografia ad essere l’opera d’arte.

In questo caso l’artista non è Canova ma Seymour, il soggetto non è la scultura e nemmeno Berenson, al centro della scena è il concetto di “osservazione dell’arte”, l’ammirazione dell’opera, fino all’estasi (evento rarissimo ma di un’intensità sconvolgente).

venerdì 10 novembre 2023

Tutto declina, Riccardo Muti e la società contemporanea (due anni dopo)

“E’ un mondo in cui non mi riconosco più. E siccome non posso pretendere che il mondo si adatti a me, preferisco togliermi di mezzo. Come nel Falstaff: Tutto declina”

Adrian Paci - Home to go (particolare)

Queste parole, estrapolate da un’intervista rilasciata da Riccardo Muti un paio di anni fa dicono molto più di quanto possa apparire ad un primo ascolto (o lettura), a questo si aggiunge una nuova “disamina” del livello culturale italiano che il noto direttore ha fatto in questi giorni.

Le parole di Muti vengono riportate da tutti gli organi di informazione ma in pochi hanno compreso l’obbiettivo dello sfogo: “La cultura nel nostro Paese sta attraversando un periodo ancora più drammatico, rivolto verso il basso, la casa di Lorenzo Da Ponte è in vendita ed è una vergogna. Parliamo di uno scrittore e poeta che dovrebbe essere studiato al liceo […] stiamo bruciando i ponti con la cultura italiana e i media ci parlano dei rapper, dei Maneskin o Maneskot.

L’accenno ai Maneskin non è un attacco diretto al gruppo ma ad un’informazione che abbandona la cultura per assecondare un pubblico che va esattamente nella direzione opposta.

Come sottolineato sopra tutti i media hanno lanciato le parole di Muti ma invece di approfondire quello che ha detto si sono limitati a … dargli ragione.

Un esempio è un giornalista (per chi ha il coraggio di definirlo tale) che ha replicato sostenendo che Muti si è scagliato contro: “la rockband che più di ogni altra, al momento, rappresenta la musica leggera italiana nel mondo. Va da sé che se è questa l’eccellenza musicale del nostro paese dobbiamo convenire che Muti ha ragione su tutto il fronte.

Che la cultura italiana sia in caduta libera è sotto gli occhi di tutti, le istituzioni si impegnano allo stremo per impoverire costantemente il nostro paese (un popolo senza cultura è il popolo ideale per chi mira a controllare le masse) se pensiamo ai ministri della cultura che si sono alternati negli ultimi lustri (di qualsiasi colore) o, peggio ancora, al disfacimento della scuola, ecco che il cerchio si chiude.

Se abbiamo bisogno di ulteriori prove del declino dei media (TV, social e i tanto celebrati youtuber) è il puerile e vigliacco attacco a Muti definito, vecchio, sorpassato e con accenni di senilità (evito di andare oltre) una società senza cultura è una società che fa della maleducazione e dell’ignoranza (le due cose vanno a braccetto) il proprio vessillo.

Naturalmente sono molte le persone che vanno “in direzione ostinata e contraria” (per citare De Andrè, a proposito di cultura) ma hanno poco spazio mediatico, d’altro canto una persona di grande cultura ha un seguito esiguo, i media cercano i grandi numeri …

Molti sosterranno che si tratta di una persona di 82 anni che non accetta il “contemporaneo” ma lo spessore di Muti non può essere ignorato, cosi come non possono passare in second’ordine le ultime due parole del discorso di due anni fa: Tutto declina.

Il declino è costante, e il declino culturale è dove la competenza, la voglia di mettersi in gioco, il desiderio di confrontarsi, hanno lasciato il posto alla maleducazione, alla pretesa di rispondere a tutto pur non sapendo nulla. L’improvvisazione ha sbaragliato l’esperienza, l’incapacità e l’ignoranza vengono esibite come trofei, l’analfabetismo funzionale è diventato un “must”, nessuno vuole più imparare perché ha la convinzione di sapere tutto, si combatte un ipotetico pensiero unico con un altro pensiero unico.

L’insulto è la norma ma è risaputo che viene utilizzato da chi non sa argomentare, da chi non accetta il pensiero altrui ma non ne ha uno suo.

In fondo le parole di Muti raccontano la difficoltà di vivere nella mediocrità.

L'unico appunto che faccio a Riccardo Muti è quello di essere, per un attimo, sceso di livello, i Maneskin possono piacere o meno ma storpiare volutamente il nome non serve alla discussione, semmai ottiene l'effetto contrario, il concetto è chiaro ma anche la forma ha un suo valore.


domenica 5 novembre 2023

Il trio delle meraviglie e della discesa (culturale) all'inferno


Grace Jones si trasforma in “tela”, Keith Haring dipinge il suo mondo, Robert Mapplethorpe cristallizza l’evento con uno scatto che fa parte della storia della fotografia, della pittura e del costume.

1984, la diva, l’artista e il fotografo, l’immagine di un periodo (gli anni 80) che con i suoi eccessi ha trasformato il nostro modo di vivere, l’inizio della decadenza che ha condotto il mondo verso l’evoluzione tecnologica.

Ma allora com'è possibile che un trio geniale possa diventare l’espressione di un’ascesa del vuoto?

Forse perché sono gli ultimi grandi artisti prima della rivoluzione contemporanea? Oppure si tratta di una decadenza culturale, mediatica, sociale, dove anche gli artisti faticano a fuggire?

Gli anno ottanta non sono certamente ricordati per il grande sviluppo culturale, sono anni in cui la maschera prende il sopravvento, dove l’essere è sostituito dall’apparire, tutto incentrato sulla sete inestinguibile di denaro, nascondendo il tutto dietro ad una vuota “evoluzione tecnologica”.

Quest’immagine dunque potrebbe rappresentare uno spartiacque che chiude un periodo di ricerca, di sperimentazione, di studio e di voglia di futuro, aprendone uno che ne è l’esatto opposto.

I nostalgici di un passato dove si guardava oltre il proprio naso, dove si “pensava” a lungo termine vedono lo scatto di Mapplethorpe come un’icona o una porta che si è definitivamente chiusa, i “follower” del nostro tempo inquadrano l’opera come l’inizio di una rivoluzione.

Con una sguardo più ampio è difficile collocare questa fotografia senza approfondirne le sfumature, tre grandi artisti di quarant’anni fa ricostruiscono la simbologia del tempo, un passato che, in quanto tale, non c’è più, un presente che si trascina ormai da tempo immemorabile sempre uguale a sé stesso e un futuro che perde ogni visione, nella speranza che qualcuno si (ci) svegli cosi che si possa ricominciare a camminare(in avanti).

 

 

martedì 31 ottobre 2023

Andare alla ricerca di altri punti di vista

Questa lettura dell’opera di Mirò, ci offre un punto di vista che non è il nostro, la recensione non ha nome (scelta che io e l’autore abbiamo fatto per togliere ogni riferimento lasciando spazio al dipinto) ne ci indica alcun aspetto dello stesso, anche se conoscere chi propone un punto d’osservazione apre ad altre ipotesi artistico-filosofiche. 

Questa lettura è differente da quello potrei immaginare io, penso che lo sia anche riguardo a quella di molti altri, il che ci permette di vedere attraverso gli occhi, le conoscenze e le esperienze di altre persone, visioni che altrimenti noi non avremmo mai comosciuto.

Joan Mirò – Nascita del mondo,1925 – Olio su tela cm 251 x 200 – Museum of Modern Art (MOMA) New Tork


“Io vedo nella parte bassa una  costruzione che indica la civiltà e la vita ordinaria. Il cerchio bianco indica la razionalità del pensiero che si eleva al di sopra della banalità del quotidiano.

Il cerchio rosso indica la spiritualità dell’uomo che eleva l ‘anima al di sopra del pensiero per un altro itinerario.

Il triangolo nero indica la divinità. Solitamente Dio viene rappresentato con un triangolo luminoso giallo, ma l’autore ha voluto rappresentare il mistero che avvolge la divinità .

L’oscurità del triangolo indica il mistero che non si lascia illuminare dal pensiero.

Il triangolo della divinità e  la spiritualità (cerchio rosso ) non si incontrano. Sono distanti, non dialogano, non hanno niente in comune.

Anche il filamento che scende dal triangolo della divinità ( che per me rappresenta l’apertura al dialogo della divinità) non incontra ...non trova un punto di incontro col movimento ascensionale della spiritualità umana.

È un rapporto dialettico nel quale non c’è una sintesi; un punto di incontro.

Alla solitudine umana corrisponde la solitudine divina. Sullo sfondo c’è l’indifferenziato che precede la creazione.

Al caos primordiale fa da contraltare la solitudine assoluta di due entità che vorrebbero incontrarsi e dialogare, ma le loro nature sono troppo diverse per poterlo fare.

Dal vuoto di prima alla solitudine di dopo la creazione. È per me un quadro che nasconde la disperazione dietro il camuffamento di immagini geometriche...che indicano la razionalità di una forza che organizza e sottende tutto...ma non ci si può confrontare e dialogare con una legge che non presenta un volto umano”.

 


mercoledì 25 ottobre 2023

Il triangolo (artistico) perfetto

Salvador Dal' - Donna con testa di rose (part.)

C’è la regina, altera e inarrivabile, dietro la maschera di modella e musa si nasconde una cinica “manipolatrice” capace di stravolgere qualsiasi mente, facendo credere di esserne al servizio ma fondamentalmente continuando a muovere i fili, la regina ha un nome, questo nome riecheggia nel tempo, a volte come un sussurro, a volte assordante: Gala.

Poi c’è il creatore di sogni, eccentrico, spavaldo, presuntuoso, arrogante e … in balia degli eventi, l’ingegno, il talento, l’essere visionario, lo stordiscono fino al punto di non accorgersi che i suoi movimenti sono controllati dall’alto, da un’entità “regale” di cui non può non innamorarsi, anche il creatore di sogni ha un nome, Salvador ma il nome stesso si perde nei meandri della storia, Dalì è il suono che scaturisce dalla voce di chi lo ricorda.

Infine c’è l’angelo, l’affinità spirituale, il creatore di sogni la ricorda così, un angelo apparso dal nulla a rischiarare le zone d’ombra, a riscaldare le gelide stanze dell’anima, anche l’angelo ha un nome: Amanda, ma al contrario dei precedenti il nome risuona forte e chiaro.

Amanda col tempo lascerà il creatore, o forse è il creatore che abbandona l’angelo, per seguire altre strade, ma questa è un’altra storia.

venerdì 20 ottobre 2023

La linea di confine è stata oltrepassata? L'arte tra etica e trasgressione

Dal 1997 quest’opera di Cattelan, intitolata “Novecento”, fa inevitabilmente discutere, può irritare, infastidire, ci può lasciare indifferenti o incuriosire.

Maurizio Cattelan - Novecento

Possiamo definirla di cattivo gusto, posiamo dubitare che sia arte o credere che sia tale, è impossibile avere un giudizio uniforme, ognuno di noi può trarne delle conclusioni (la conclusione dipende dalla quantità e qualità di informazioni in nostro possesso, quantità è qualità non fanno propendere per forza verso un giudizio positivo, anzi avere le giuste informazioni può spingerci a rifiutare l’opera come artistica).

Ma non è questo il punto, a lasciarmi perplesso è il fatto che dopo più di 25 anni ci sia ancora qualcuno che chiede: “ma il cavallo è vivo?”.

Onestamente sono domande che lasciano basiti, trovo incredibile che, con l’accesso ad un’infinità quantità di informazioni, ci sia ancora qualcuno (sono moltissimi, le stesse domande le hanno fatte per un’opera simile esposta qualche anno fa sulle rive del lago d’Iseo) incapace di valutare ciò che vede ed eventualmente informarsi.

Spesso a queste domande corrispondono le risposte più disparate, da chi conferma che Cattelan esponga un cavallo vivo e di conseguenza aumenta l’indignazione, a chi da la stessa risposta ma in modo ironico.

In entrambi i casi chi ha posto il quesito non distingue il “tono” della risposta, da per scontato che la propria impressione sia l’unica esatta ed è per questo che non vengono poste le domande "giuste" (virgolettato perché la domanda giusta non esiste) ma si innescano futili polemiche ignorando quelli che forse sono quesiti fondamentali. 

Infatti non è questa sterile diatriba l'obbiettivo del mio scritto (è evidente che il cavallo non sia vivo) la questione è un’altra, il cavallo di Cattelan è una scultura o si tratta di un animale imbalsamato?

Siccome si tratta appunto di un animale imbalsamato ci dobbiamo interrogare se l’esibizione di un animale impagliato (o “in tassidermia” per rendere la cosa più accettabile) sia corretta, infatti il “Rinoceronte appeso” di Stefano Bombardieri, che ho ammirato sulle rive del lago d’Iseo, citato poco fa, è in resina, in questo caso si elimina la questione legata all'utilizzo di un essere "organico".


Stefano Bombardieri - Tempo sospeso

Da una parte la discutibile scelta di Cattelan, dall’altra quella di Stefano Bombardieri, entrambe artisticamente e concettualmente ineccepibili, al di là del fatto che le si possa o meno considerare opere d’arte, ma materialmente diverse.

Questo ci porta ad un’altra opera, per l'esattezza A Thousand Years di Damien Hirst, dove lo scontro tra l’artista è chi ha a cuore il rispetto degli animali raggiunge l’apice.

Damien Hirst, - A Thousand Years

La struttura consiste in una teca di vetro e acciaio di grandi dimensioni divisa al centro da una lastra in plexiglas forata, da una parte vi è una scatola contenente delle larve di mosca, dall’altra la testa di una mucca appena acquistata, e ancora abbondantemente grondante di sangue, da un mattatoio (Hirst si difende sostenendo che la mucca non è stata soppressa apposta ma che la testa sarebbe stata gettata come rifiuto organico) le larve si trasformano in mosche che a loro volta si dirigono verso la carcassa sanguinolenta (la testa è reale, il sangue no in quanto acqua zuccherata e colorata di rosso, per rendere l'effetto più duraturo).

Ma la cosa che ha fatto infuriare gli animalisti è il fatto che sopra la testa era posizionata una lampada anti zanzare che uccideva sistematicamente le mosche accorse verso la carne in decomposizione.

Riepilogando, tre modi di esprimere un pensiero artistico, in tutti e tre i casi emerge un concetto sicuramente profondo, tutti partono dalla stessa idea ma utilizzando metodi differenti.

Se vogliamo evitare di fare del falso moralismo e limitare un’immancabile ipocrisia dovremmo constatare che nel nostro quotidiano non ci comportiamo molto meglio, è sicuramente il caso di sottolineare le storture di queste opere d’arte (tali per ciò che esprimono) senza eccedere in false indignazioni.

Pur apprezzando tutti e tre gli artisti citati non posso non provare un certo fastidio per le opere di Cattelan e Hirst, la domanda che mi faccio è: si potevano “costruire” diversamente queste opere?

Per quanto riguarda Novecento di Cattelan sicuramente si, infatti Bombardieri lo ha fatto, riguardo a Hirst è il discorso è più complesso, la testa era uno scarto di macelleria (anche le larve delle mosche erano destinate alla pesca ma stranamente nessuno ha alcunché da eccepire, nonostante la si possa affiancare alla caccia) ma l’eliminazione sistematica delle mosche per un futile motivo non è accettabile, questo ci porta a più profondi ragionamenti, qual è il limite che possiamo raggiungere? Forse il vero significato di queste opere è questo: Il limite è abbondantemente superato? sarebbe forse il caso di prenderne coscienza e fare un passo indietro?

Partendo dalle puerili domande che in molti si fanno davanti al cavallo di Cattelan ho cercato di andare oltre, porci ulteriori domande che alla fine ci portano alla conoscenza dei nostri lati oscuri.