sabato 27 marzo 2021

L'uomo, la natura, i ricordi, le radici.

 Autore:   John Constable

(East Bergholt, 1779 – Londra 1837) 

Titolo dell’opera: la chiusa 

Tecnica: Olio su tela 

Dimensioni: 140cm x 120 cm

Ubicazione attuale:  Collezione privata

 

 


Uno dei pochi dipinti di Constable rimasti in mani private, nel 2015 è stato acquistato da un collezionista europeo, che ha mantenuto l’anonimato, per poco più di 12 milioni di euro.

L’opera è tra le più famose realizzate dal pittore inglese, fa parte della serie dedicata alla descrizione dei paesaggi e delle culture della sua terra, la campagna del Suffolk.

Pittore stilisticamente “accademico” da l’impressione di realizzare una semplice veduta paesaggistica, grazie alla tecnica eccelsa, ma con un accurato approfondimento ci si rende conto che l’aspetto esteriore passa in secondo piano, Constable rispecchia sulla tela l’amore per la campagna inglese e per la miriade di “fenomeni” cromatici che danno vita ad un mondo poeticamente concreto.

Un uomo è impegnato con la leva di una chiusa mentre un altro, più in disparte cerca di frenare l’imbarcazione spinta dalla corrente.

La luce, i colori, il senso di piacevolezza che ci accompagna guardando quest’opera, nonostante stia raffigurando il duro lavoro quotidiano, concorrono a celebrare la bellezza della natura, il cielo, la terra, gli alberi, l’acqua, il cerchio naturale della bellezza.

Otre al citato paesaggio e alla figura centrale che cattura immediatamente lo sguardo, sono molti i particolari che col trascorrere del tempo vengono all’occhio.

Dalle cose più evidenti, il grande albero a destra si contrappone alle nuvole che coprono parzialmente l’azzurro del cielo, nubi bianche e innocue che lasciano intravedere l’arrivo, o l’allontanamento, di altre più minacciose.

Un uomo, un cane e un cavallo spuntano dietro alle paratie in legno che completano la struttura della chiusa, cosa facciano possiamo solo immaginarlo, ognuno con la propria sensibilità, conoscenza e stato d’animo.

In primo piano la flora che cresce sulla riva terrosa, erbe di ogni tipo, le chiazze di terra rendono ancor più realistica la scena, mentre dall’altra parte della chiusa, in profondità, emerge un paesaggio nel paesaggio stesso.

Un vasto prato, degli alberi, alcune abitazioni su cui svetta una torre campanaria, e dietro ancora boschi fino alle lontane colline che si spengono nella coltre di nuvole.

Constable non ha mai ottenuto grandi riconoscimenti nel proprio paese, solo dopo i quarant’anni riesce a vendere il suo primo quadro ma è solo dopo la morte (come spesso accade) che ne viene riconosciuto il talento e la capacità di esprimere l’emozione della vita rurale.

Al contrario della natia Inghilterra la Francia, e in particolare Parigi, ne riconoscono immediatamente le qualità, le sue opere vengono accolte con grande entusiasmo, sicuramente le opere di Constable hanno avuto una grande influenza sui paesaggisti francesi.

La tecnica basata sulle rapide pennellate, la capacità di sovrapporre svariate sfumature dello stesso colore (con il verde ha saputo in questo modo ricreare la naturalezza della campagna) e la maestria nell’utilizzo della luce hanno inevitabilmente regalato preziosi spunti alla “corrente” che di li a poco avrebbe scosso l’arte dalle sue fondamenta: gli impressionisti.

sabato 20 marzo 2021

Il cammino verso l'eternità, Gaetano Previati

Autore:   Gaetano Previati

(Ferrara, 1852 – Lavagna, 1920)

Titolo dell’opera: Via Crucis (14 opere) 1901-02

Tecnica: Olio su tela

Dimensioni: 121 cm x 107 cm ciascuna 

                       Ubicazione attuale:  Musei Vaticani, Città del Vaticano    


I stazione - Gesù coronato di spine

La Via Crucis di Gaetano Previati nasce dall’immedesimazione del pittore non la passione di Cristo, il pittore ferrarese infatti, secondo fonti autorevoli, si fece costruire una croce che caricava su di sé ogni qualvolta l’ispirazione veniva meno.

Influenzato dal movimento “scapigliato” Previati modifica, trasforma continuamente il proprio stile, la propria tecnica, portandola a quello che noi conosciamo come il “divisionismo”.

In questa serie dedicata alla salita al Calvario Previati concentra una limitata gamma cromatica dove spicca il rosso della tunica, le pennellate filanti e corpose trasmettono tutta la sofferenza del Cristo e mettono in luce la miseria umana.

La figura di Gesù non è mai rappresentata in modo “limpido”, realistico, ma è l’unica riconoscibile, le altre persone che, scorrendo la sequenza narrativa, appaiono sulla scena sono poco più che delle ombre, quasi delle maschere che non lasciano trasparire le emozioni pur garantendo all’osservatore la sensazione di sofferenza e angoscia.

Basta infatti la prima tela per comprendere quale forza emani dai dipinti, Gesù con gli occhi chiusi in attesa che il destino si compia mantiene quella calma che solo uno spirito divino può provare, le cinque figure che si affacciano dal colonnato sono solo l’ombra di sé stesse annientate dal dolore, grande protagonista di questa serie di dipinti.

Scorrendo i vari passaggi entriamo in un mondo dove la fioca e malinconica luce del tramonto illumina il cammino.

Solo negli ultimi quattro “episodi”, con la spogliazione scompare il profondo e opprimente manto rosso, la scena cambia l’aspetto cromatico, si schiarisce e, nonostante siamo davanti al momento più amaro, ci conduce all’esito finale, un richiamo all’imminente resurrezione.


II stazione - Gesù Caricato della croce

III stazione - Gesù cade per la prima volta

IV stazione - Incontro con Maria Vergine

V stazione - Cireneo

VI stazione - La Veronica

VII stazione - Gesù cade per la seconda volta

VIII stazione - Incontro con le pie donne


IX stazione - Gesù cade per la terza volta

X stazione - Gesù spogliato

XI stazione - Gesù inchiodato

XII stazione - La crocifissione

XIII stazione - La deposizione

XIV Stazione - La sepoltura

sabato 13 marzo 2021

La "lettura" postuma dell'opera d'arte

Autore:   Franz Marc

(Monaco di Baviera, 1880 – Verdun, 1916) 

Titolo dell’opera: Capanne di fango nella palude di Dachau, 1902

Tecnica: Olio su tela

Dimensioni: 43,5 cm x 73,6 cm

Ubicazione attuale:  Franz Marc Museum, Kokhel am See



Prendo questa tela, di un poco più che ventenne Franz Marc, come esempio di quanto un’opera muti il proprio “aspetto” a seconda di quanto conosciamo tutto ciò che ne è correlato, in questo caso le nostre impressioni possono essere stravolte da ciò che è successo più di trent’anni dopo.

Ad un primo sguardo ciò che vediamo è un paesaggio immerso nel verde, una capanna circondata dagli alberi situata in prossimità o al centro di una zona acquitrinosa.

Tutto sembra immobile, tranquillo, traspare un vago senso di pace, il titolo ci da alcune informazioni, “capanne di fango” anche se l’originale in tedesco sembra concentrarsi sulla capanna ignorando la sostanza di cui è composta, ma questo  non aggiunge o toglie granché.

E’ sempre il titolo a confermarci che siamo nei pressi di una palude (cosa che avevamo intuito) e questo particolare può modificare la nostra percezione, le paludi sono vissute come luoghi malsani, tutt’altro che ameni, il senso di pace dunque potrebbe svanire.

Ma cosa ribalta la nostra visione del dipinto? Soprattutto perché dovrebbe farlo qualcosa che succederà in futuro?

La risposta sta ancora nel titolo, il luogo rappresentato da Marc è nei dintorni della cittadina di Dachau.

Quello che per l’umanità di inizio novecento non è altro che un grazioso paesaggio, per l’osservatore del terzo millennio (con una minima conoscenza storica) è un luogo dove si è vissuto uno dei momenti più terribili della storia dell’umanità.

Chi sa cosa sia successo a Dachau non può ignorare quei fatti e non può esimersi dall’associare la palude naturale di Marc con la palude marcescente dell’animo umano.

Si tratta di un complicato modo di leggere un dipinto ma penso che non possiamo ignorare il fatto che le nostre esperienze, le nostre conoscenze, fatalmente “contaminano” il nostro sentire, la comunicazione con l’opera subisce (o si arricchisce) il nostro subconscio, è doveroso e soprattutto salutare, lasciare che “escano” tutte le sensazioni, anche quelle che apparentemente non hanno nulla in comune con il dipinto, lascandole fluire potremo costruire una visione , sicuramente personale, ma decisamente più completa.  

  

domenica 7 marzo 2021

La crescita esponenziale del parassitismo "artistico"

E’ risaputo che quando non si sa fare nulla ci si appropria delle idee altrui.

Nella notte tra il 4 e il 5 marzo un certo Ivan ha applicato dello smalto fucsia al dito medio della scultura di Maurizio Cattelan “L.O.V.E.” situata in piazza Affari a Milano.

Il presunto artista ha motivato il gesto dedicandolo alle donne in vista della “Giornata internazionale della donna”.

Naturalmente, in un paese dove il parassitismo è la norma, l’operazione è stata accolta da numerosi consensi, in particolare dal movimento femminista (sembra che il geniale (????) artista lo abbia dedicato proprio a loro) “Non una di meno” che si distingue per la lodevole e giusta causa femminile ma anche per qualche deturpamento di troppo.

Ma il punto che più mi interessa è quello artistico, è curioso che Cattelan venga sistematicamente criticato per i suoi lavori per poi vedere i suoi detrattori esaltare “artisticamente” chi ne deturpa le opere (esempio lampante la famosa banana appesa al muro con del nastro che venne definita una pagliacciata mentre chi l’ha strappata dal suo contesto e mangiata è stato definito un artista).

E ’incredibile che chiunque cerchi di realizzare qualcosa di nuovo (che poi possa piacere o meno è un'altra cosa) venga sistematicamente stroncato, mentre chiunque, e sottolineo chiunque, si dedichi alla, parziale o totale, distruzione dei lavori altrui venga incensato come se si trattasse di un geniale visionario.

Il degrado odierno si evidenzia anche con queste situazioni, ci si attacca al “politicamente corretto” (vera piaga di questi anni) per poter fare ciò che si vuole, in particolare danneggiando il lavoro, materiale e concettuale altrui.

PS. A dimostrazione del livello tecnico (perché quello di concetto è inesistente) del suddetto Ivan basta guardare la cura con cui ha steso lo smalto.

sabato 6 marzo 2021

Sul palcoscenico dell'arte c'è chi recita un copione e chi improvvisa

Qualche tempo fa definii l’arte “recitazione”, come tutti i tentativi di etichettarla anche questo è un pretesto per ampliare una discussione, non necessariamente tra più individui, che va nella direzione opposta a quella di trovare una risposta (impossibile da “catturare” e fondamentalmente non necessaria).

Questa fotografia di Man Ray del 1920, custodita al Philadelphia Museum of Art, conduce proprio in quella direzione, si tratta del ritratto di Rrose Sélavy.

Chi conosce Rrose Sélavy sa già che la recitazione è palese, chi al contrario non ha idea di chi sia può limitarsi al commento estetico e stilistico della signora in questione e di Man Ray, autore della fotografia.

Rrose Sélavy è la firma che troviamo in calce su molte opere, un nome che altro non è che lo pseudonimo utilizzato da Duchamp per dare l’ennesima svolta al suo concetto di arte.

Non bastava un nome femminile per modificare il concetto di alcuni suoi lavori, era necessario dare un volto al lato “altro” della sua arte.

Il nome, l’immagine (che possiamo trovare anche su una boccetta di profumo) sono i pilastri su cui poggia quella che possiamo definire la “grande recitazione” di un artista che va ben oltre l’oggetto artistico.

“Duchamp come Rrose Sélavy”, questo è il titolo della fotografia, certificano il tentativo, peraltro riuscito, di concepire l’arte in maniera totalmente rivoluzionaria, uscire dai consueti canoni per dare vita ad un mondo mai visto prima, ma se vogliamo scombinare i piani prestabiliti dalle abitudinarie concezioni già assimilate dal comune senso artistico, estetico, culturale e sociale, non possiamo presentarci con gli abiti consueti, dobbiamo per forza “travestirci”, e di conseguenza recitare una parte che finora non ha mai visto la luce.

L'esteriorità e il senso artistico

Questa boccetta di profumo è una delle più costose di sempre, realizzata nel 1921 (esattamente un secolo fa) nel 2009 viene battuta all’asta da Christie’s a Parigi per la cifra di 11 milioni e mezzo di dollari.

Il prezioso gioiello ha una peculiarità, per mantenere intatto il suo valore, e casomai aumentarlo, non deve essere aperto.

Ma questo non è sufficiente a rendere unica e dal valore inestimabile questa confezione non è il contenuto ma l'etichetta.

Il “divieto” di aprire la confezione, che causerebbe il deprezzamento della boccetta, non ha solo lo scopo di mantenere intatta la confezione ma quello di impedire (solo formalmente in quanto si conosce il contenuto) che venga alla luce che si tratta di un comune profumo.

E’ dunque l’etichetta a trasformare un comune oggetto di consumo in un’opera d’arte, è bastato incollare il ritratto di Rrose Sélavy sopra l’etichetta originale è il gioco è fatto.

L’intervento di due artisti di fama mondiale ha reso possibile questa trasformazione, il fotografo che ha immortalato la donna è Man Ray mentre dietro “l’affascinate” signora si cela (nemmeno troppo) l’estro e il genio di