martedì 31 gennaio 2023

Quantità e qualità, c'è un equilibrio?

Stavo leggendo un saggio (scritto nel 2016) il cui scopo è quello di comprendere l’arte partendo da una “visione” filosofica. 

Non voglio addentrarmi nello specifico argomento trattato ma concentrarmi sulla scrittura, sul linguaggio utilizzato.

Book of Kells - Old Library del Trinity College, Dublino


Al contrario di altri testi contemporanei, saggistica o narrativa, l’autore ha utilizzato un vasto numero di vocaboli, utilizzando cosi parole poco conosciute e usate raramente.

Spesso sentiamo dire che il bravo scrittore, il divulgatore moderno, deve parlare “semplice” perché deve raggiungere il massimo numero di lettori ( la semplicità viene spesso confusa con la povertà di linguaggio). Questo però da una parte permette a molta gente di avvicinarsi ad un particolare argomento (senza che ci sia una crescita effettiva) dall’altra riduce sempre più l’utilizzo dell’italiano nella sua interezza.

Se, come denunciano i vari sociologi, il nostro linguaggio si sta continuamente “accorciando” per via dell’utilizzo di pochissimi vocaboli, con questo modo di operare siamo destinati, nel tempo, a comunicare con dei semplici grugniti.

A questo punto mi chiedo se è giusto continuare ad impoverire il nostro linguaggio, con l’idea di una offrire una “conoscenza per tutti”, oppure se non è il caso di cambiare rotta arricchendo il vocabolario correndo il rischio che i più “pigri” restino indietro.

Ed è proprio questo il punto, la pigrizia imperante di chi, davanti alla necessità di impegnarsi abbandona il campo, rinunciando cosi all’opportunità di evolversi nel linguaggio e soprattutto culturalmente.

Naturalmente nessuno vuole tornare ai tempi in cui la lettura, e di conseguenza la conoscenza, fosse un  "bene” solo per pochi eletti, ma penso che non serva a nulla abbassare il livello del vocabolario per raggiungere più persone, la soluzione, logica, sarebbe quella di educare la gente a crescere nella comprensione di un linguaggio complesso, solo cosi la conoscenza sarà per tutti e contemporaneamente si potrà arrestare una pericolosa deriva ...

venerdì 27 gennaio 2023

La narrazione del dolore come terapia (e prevenzione) dell'orrore, Edit Birkin

Edit Birkin (nata Hofmann, nome con cui firma le sue opere) viene deportata nel ghetto di Lódz nel 1941, allora aveva 14 anni, successivamente viene trasferita ad Auschwitz dove vive l'orrore dell'olocausto.


L'ultimo respiro-camera a gas, 1980 cm 50,8 x 60,9  Imperial War Museum, Londra

“Auschwitz era molto spaventoso, perché c’era pieno di tedeschi”, bastano queste parole per farci comprendere quanto era radicato, nella Germania di allora, il concetto di odio.

Ancora più pesanti delle parole sono alcuni dipinti che Edit realizza più tardi, opere che raccontano l’inenarrabile e al contempo riescono ad alleviare, seppur molto parzialmente, l’angoscia che pervade chi ha conosciuto l’orrore.


Giorno della liberazione, 1980-82   cm 53,3 x 45,7   Imperial War Museum, Londra



Carretto della morte, ghetto di Łódź, 1980-82  cm 71,2 x 91,4    Imperial War Museum, Londra



Un campo di gemelli - Auschwitz, 1980-82  cm 71,2 x 91,4  Imperial War Museum, Londra



mercoledì 25 gennaio 2023

Il genio e la follia dell'arte invisibile, Lana Newstrom

Lana Newstrom, performer statunitense che ha fatto parlare di sé per le idee rivoluzionarie, probabilmente si tratta dell’artista concettuale più estrema, la sua visione essenziale ha dato vita a discussioni accese e interminabili.

Nel 2014, all’età di 27 anni, da vita alla sua prima mostra personale, dipinti e sculture riempivano le sale dove fiumi di gente “scorrevano” tra l’entusiasmo e lo stupore, l’esposizione era di per sé unica, le opere infatti erano invisibili.



Davanti alle pareti spoglie, ai piedistalli che non reggevano nulla, lo spettatore si chiedeva quale fosse il senso di ciò, la Newstrom lasciava all’osservatore il compito di dare vita all’opera. Il tutto era reso ancora più complicato dalla totale assenza di indicazioni, niente cartellino con il titolo, non vi era una seppur minima descrizione, il nulla.

La mostra naturalmente ha scatenato un autentico vespaio, le testate giornalistiche di tutto il mondo hanno riportato la notizia non lesinando le critiche più dure, ma in questo modo hanno a loro volta dato importanza all’evento.

Il sito internet dell’artista americana è stato preso d’assalto da collezionisti provenienti da ogni latitudine, le sue opere, accompagnate da certificati di autenticità, sono state vendute a cifre astronomiche, in poche parole la nostra Lana ha ceduto le proprie “creazioni” incassando milioni di dollari.

L’artista stessa ha motivato i suoi lavori ed il successo che ne deriva: la mia mostra restituisce all’arte il ruolo che essa dovrebbe avere: quella di far sognare, stimolare l’immaginazione – cosa che non accadrebbe con le opere di chi si impegna ad esprimersi ‘alla vecchia maniera”.

La Newstrom risponde anche alle critiche affermando che “Arte è immaginazione e questo è ciò che il mio lavoro richiede alle persone che interagiscono con lui. Bisogna immaginare un dipinto o una scultura proprio davanti ai vostri occhi.” E a chi, pur riconoscendole il pensiero ma accusandola di non fare assolutamente nulla risponde: “Solo perché non si vede niente, questo non vuol dire che io non abbia impegnato ore di lavoro per creare l’opera.

A rincarare la dose interviene anche l’agente della Newstrom, affermando che da ora l’arte prende una nuova e definitiva strada, la sua assistita, secondo lui, è l’artista di cui avevamo bisogno, una grande visionaria che darà una svolta epocale al mondo dell’arte.

Ci si è chiesti, e lo si fa tutt'ora, cosa spinga il visitatore di una mostra come questa a ritenere le opere cosi importanti (le stime dei giornali di quell’anno parlano di migliaia di persone in fila per ammirare i dipinti e le sculture invisibili) e soprattutto cosa spinge un collezionista a portarsi a casa, a suon di milioni di dollari, opere che non vede e non vedrà mai, forte solo di un certificato di autenticità.

Queste domande sono state per molto tempo il filo conduttore nelle discussioni nate dalle opere di Lana, domande che, in un tempo fondamentalmente breve, hanno perso la loro forza fino a scomparire.

Infatti tutto si è spento quando due conduttori radiofonici americani, Pat Kelly e Peter Oldringhanno svelato che tutto quanto era pura finzione, dall’immagine della sala vuota piena di visitatori, con un sapiente e accurato fotoritocco hanno tolto i quadri nello scatto riferito ad un’altra mostra (nella foto in basso) fino al finto sito internet creato ad arte, al punto da non lasciare dubbi sull’autenticità.

A questo punto però lasciar cadere la cosa con una risata diventa pericoloso, se prima ci si chiedeva il perché del successo della fantomatica mostra e del motivo dell’escalation dei prezzi, ora ci si deve chiedere perché questa notizia sia stata considerata plausibile, al netto dell’incompetenza delle varie testate che hanno pubblicato gli effetti dell’evento senza curarsi di verificare le fonti, dovremmo concentrarci sul fatto che in molti hanno creduto alla mostra perché la cosa non è poi cosi assurda, almeno secondo il percorso preso ultimamente dall’arte contemporanea.

A dare una spiegazione potrebbero bastare le parole di Joseph Kosuth, lui sì grande esponente dell’arte concettuale: “In un certo senso l’arte può essere seria come la scienza o la filosofia. Può essere interessante o no, dipende dal fatto che ne siamo più o meno informati”. 

Tirate le somme e ricostruita questa bizzarra vicenda emerge un’altra riflessione, se Lana Newstrom non fosse stata un’intuizione del duo Kelly-Oldring ma fosse veramente esistita, se realmente avesse dato vita ad opere invisibili e se davvero i collezionisti avessero preso d’assalto i suoi lavori, avremmo potuto etichettare il tutto come una cosa “senza senso”? 




venerdì 20 gennaio 2023

Quali sono le "basi" dell'arte?

Maurizio Cattelan sostiene di non saper dipingere, di non saper disegnare o scolpire, solo il vuoto riesce a dargli le idee.

E’ sufficiente?

Maurizio Cattelan - Untitled, 2001


Istintivamente potremmo rispondere con una negazione, se un artista non ha le competenze tecniche per “creare” arte non dovrebbe essere considerato un artista.

Ma, perché c’è sempre un ma, dobbiamo per forza prendere in considerazione l’idea, nel caso di Cattelan le idee nascono quando non ci sono imput esterni, quando appunto ci si trova circondati dal vuoto.

È difficile estraniarsi completamente da ciò che ci circonda, riuscire in questa impresa e dare vita a concetti artistici nuovi, rivoluzionari, è sinonimo di grande arte, saper trasformare l’idea in qualcosa di tangibile è a sua volta un’impresa tutt’altro che semplice.

C’è un altro passo da compiere, se non sappiamo dipingere, scolpire, disegnare, se non siamo in grado di costruire materialmente alcunché ma abbiamo nella testa un’idea dobbiamo rivolgerci ad altri per poterla realizzare.

Il concetto che sta alla base dell’opera d’arte è ben chiaro nella testa dell’artista ma se è difficile metterla in pratica per chi ne ha le capacità è ancora più complicato trasmettere l’idea stessa a qualcun altro, far capire cosa si vuole realizzare, e farlo seguendo un preciso percorso mentale, è di una difficoltà estrema.

A questo punto, pur avendo la classica idea geniale ma in assenza di capacità manuali il talento dell’artista emerge nella capacità di convogliare il proprio pensiero nell’altro, in chi realizzerà la propria visione.

Alla domanda posta all’inizio ho praticamente dato una mia risposta che non vuole essere la risposta ma solo un’interpretazione, ad ognuno la libertà di esprimere la propria ma soprattutto il piacere, per chi lo trova piacevole, di cercare una via d’uscita (o d’entrata).

 

domenica 15 gennaio 2023

L'ascesa e il tracollo di un mito della "scrittura" musicale, la rivista Rolling Stones tra le vette degli albori al baratro dei Maneskin

“Rolling Stones “, chi non ha mai associato la rivista alla concezione della musica, rock in particolare, alla rivoluzione musical-culturale degli anni sessanta e dei decenni successivi?


Il magazine statunitense nato nel 1967 prende il nome dal brano di Muddy Waters  Rollin' Stone, anche se qualcuno lo associa al brano “Like a Rolling Stones” di Bob Dylan, e diventa una sorta di bibbia per il movimento di massa che accompagna lo sconvolgimento in atto in quegli anni.

Ma, come tutte le cose terrene, anche un “testo sacro” (che evidentemente sacro non è) come Rolling Stone segue la classica parabola dove all’ascesa segue il picco seguito dalla naturale discesa (in questo caso potremmo parlare di un rovinoso tracollo).

Sono lontani gli anni delle grandi rock band, lo stesso “genere” musicale è legato ad un passato che, in quanto tale, non è più riproducibile, di conseguenza anche il senso della rivista è scemato, il magazine americano dunque non ha più ragione di esistere per quello che è stato e che vorrebbe essere.

La musica, al contrario delle arti visive, e parzialmente del cinema, non riesce ad uscire dai “recinti” di quei favolosi anni, cerca di riproporre sempre la stessa cosa spacciandola per rivoluzionaria ma oltre ad essere l’esatto contrario è anche palesemente ridicola (il cinema fa lo stesso rifacendo, con risultati aberranti, tutto ciò che è stato fatto in passato anche se qualche “perla”, nel mare di fango, possiamo ancora trovarla).

La conferma di tutto ciò è nelle parole David Browne che , sulle pagine della mitica (un tempo) rivista esalta l’ultimo album dei Maneskin come se si trattasse di qualcosa di rivoluzionario.

I punti sono tre: uno, Rollig stone, come è abitudine oggi nella “critica” di ogni genere, ha avuto degli incentivi per dare un simile giudizio. Due, la recensione entusiastica è dovuta al nulla musicale contemporaneo (ma faccio fatica a pensare che nel mondo non ci sia qualcosa di meglio, statisticamente è impossibile). Tre, l’incapacità di “lettura” musicale, data dalla crescente collocazione di gente incompetente nei posti che contano, che porta a parlare (bene) indipendentemente dal valore reale e dalla vastità del panorama musicale mondiale.

La motivazione delle incomprensibili celebrazioni del gruppo italiano sono sempre le stesse: “almeno loro sanno suonare”, questo basta per far capire quanto il resto sia avvolto nello squallore più totale, ma anche: “propongono un rock e un look rivoluzionario”, chiamare rock quello che fanno è quantomeno azzardato, riguardo alle “sceneggiate” … già viste decenni fa e, tra l’altro, fatte molto meglio.

sabato 14 gennaio 2023

Memoria musicale vs provincialismo, l'Italia con il paraocchi?

L’altro giorno se ne è andato anche Jeff Back, naturalmente i media italiani non se ne sono accorti, se non in minima parte.


Uno  youtuber, che tra l’altro parla di calcio, ha esordito nel suo video con “Ci ha lasciato anche Jeff Back” e ha aggiunto “ chi non conosce Jeff Back ha seri problemi con la musica”.

Queste parole mi hanno riportato al video di un concerto a Reggio Emilia di una decina d’anni fa, tra i vari cantanti che si sono esibiti c’era anche Zucchero, prima di intonare “Madre dolcissima” annuncia che ad accompagnarlo alla chitarra c’è nientemeno che Jeff Back, la risposta del pubblico lascia di stucco, nessuna reazione, nessun “boato”, se Zucchero avesse presentato la nonna avremmo visto più entusiasmo.

Entusiasmo che invece si è palesato quando sul palco si sono aggiunte Elisa e la Mannoia.

Non ho niente contro le due cantanti italiane, ci mancherebbe, voglio concentrarmi su Back e la sensazione che in pochi sapessero chi fosse.

È evidente che, perlomeno a quel concerto, fossero in molti ad avere grossi problemi con la musica.

La memoria corta, il provincialismo imperante, l’incapacità di “guardare” a 360 gradi.

Resta, per chi lo ha apprezzato, la grande “presenza” di un gigante del rock.

PS. in questo video, al di là della reazione del pubblico, possiamo assaporare le qualità del musicista londinese.


martedì 10 gennaio 2023

Ad ogni epoca il proprio simbolo, Otto Dix e Sylvia von Harten

Otto Dix – Ritratto di Sylvia von Harten - Olio e tempera su tavola cm 121 x 89 
Centre Pompidou, Parigi



 

Sylvia von Harden, la giornalista che deve la sua immortalità al pittore Otto Dix e che a sua volta è il soggetto più noto dell’artista tedesco.

Siamo a metà del secondo decennio del 900, Dix con la sua pittura vuole rappresentare la realtà in cui lui stesso e tutto il popolo tedesco si trovano immersi.

Il ritratto della von Harden ne è la perfetta sintesi, la raffigurazione di un mondo al limite del grottesco, un’auto caricatura del regime, che deve ancora mostrare il suo peggio.

Il presunto dialogo tra il pittore e la giornalista, che i posteri ci hanno lasciato, è l’emblema di ciò che Dix voleva raccontare con questo ritratto:

“Devo dipingerti. Rappresenti un’intera epoca!

Vale a dire, che vuoi dipingere i miei occhi spenti, le mie orecchie bizzarre, il mio lungo naso e le labbra sottili. Vuoi dipingere le mie mani grandi, le mie gambe corte e i piedi enormi. Nessuno ne sarebbe deliziato, semmai molti si potrebbero spaventare.”

Che il nostro Otto abbia calcato la mano è evidente, il ritratto fotografico di August Sander, nell’immagine in basso, ci svela la forzatura, ma il ritratto non è quello della giornalista e nemmeno della donna von Harten, è l’immagine simbolo della Repubblica di Weimar.

Nel dipinto non vi è nulla che faccia emergere la professione di Sylvia, si nota una “femminilità” emergente che scombussola ogni visione canonica, tutto è rigido, artefatto, tutt’altro che naturale, la bellezza e la bruttezza (termini che dicono tutto e niente) sono scomparsi, esiste solo una costruzione artificiosa, senz’anima.

Che questo ritratto sia un simbolo di un determinato periodo storico viene confermato da una scena del film Cabaret (1972) di Bob Fosse dove in un angolo fumoso di un locale troviamo la perfetta riproduzione della von Harten targata Dix.

a sinistra:“ Il volto del nostro tempo ” Ritratto fotografico di Sylvia Von Harden (1925) di August Sander. a destra una scena dal film Cabaret di Bob Fosse (1972)


giovedì 5 gennaio 2023

L'immagine divina si fa terrena. Giotto di Bondone

La Basilica superiore di Assisi, la Cappella degli Scrovegni a Padova, questi cicli di affreschi sono l’apice della concezione artistica e della fama di Giotto di Bondone.

Santa Maria Novella, Firenze, 1290-1295 - Tempera e oro su tavola - 578×406 cm 

Il pittore toscano non ha certo bisogno di presentazioni, è sicuramente l’artista che ha dato una delle svolte fondamentali (forse la più incisiva) alla storia dell’arte, è senza dubbio colui che ha dato vita alla pittura moderna, una visione artistica che mette l’uomo al centro del “quadro”, metaforicamente e non.

Se i due esempi fatti precedentemente sono l’essenza della pittura di Giotto non da meno sono in quatto crocifissi lignei che ad oggi possiamo ammirare. I grandi dipinti su tavola realizzati tra il 1290 e il 1315 sono distribuiti in tre città italiane, due a Firenze, Padova e Rimini.

Opere di grandi dimensioni, la più grande a Firenze supera i cinque metri, raccontano la crocefissione di Cristo ma mettono in risalto il lato “umano” del figlio di Dio, la sofferenza, il sacrificio, la morte (quest’ultima rende definitivamente Gesù parte dell’umanità.

La struttura dei crocifissi è simile anche se, per motivi diversi, hanno una costruzione unica, il dipinto di Rimini, sito dietro l’altare nel Tempio Malatestiano è quello che presenta le maggiori “assenze” dovute allo “spacchettamento” dell’opera, oltre ai dolenti,  che negli altri crocifissi appaiono ai lati del patibulum, anche la raffigurazione del Cristo Redentore, che aveva collocazione alla sommità della croce, è assente (quest’ultima è parte di una collezione privata londinese).

Le immagini dei crocifissi a seguire rispettano l’ordine cronologico, da notare il volto di Cristo dove l’espressione di dolore aumenta con il trascorrere degli anni nella realizzazione di Giotto, un esempio della consapevolezza del pittore nella ricerca di una dimensione sempre più terrena.

Tempio malatestiano Rimini, 1301 – 02 – Tempera e oro su tavola - 430x303 cm 


Musei degli Eremitani Padova. 1303 – 05 – Tempera su tavola - 223x164 cm 

Chiesa di Ognissanti, Firenze, 1315 ca. – Tempera e oro su tavola - 468x375 cm