venerdì 29 ottobre 2021

Halloween e il coraggio di guardare dentro noi stessi.

“Halloween è il giorno in cui ci si ricorda che viviamo in un piccolo angolo di luce circondati dall'oscurità di ciò che non conosciamo. Un piccolo giro al di fuori della percezione abituata a vedere solo un certo percorso, una piccola occhiata verso quell'oscurità.”

(Stephen King)

Al di là delle annuali e sterili polemiche che si scatenano attorno ad Halloween, oltre le “barricate” pseudo ideologiche che fioriscono davanti a qualunque cosa che non sia la solita routine, questa festa ha una connotazione particolare, viene percepita diversamente a seconda del paese in cui viene festeggiata, ma nonostante le differenze culturali e geografiche sa scendere in profondità, molto di più di quanto immaginiamo (o vogliono farci credere).

In Sudamerica la vigilia di Ognissanti viene vissuta con intensità spirituale, un giorno all’anno lo spirito di chi se ne è andato torna ad incontrare i propri familiari, questo riporta il “tutto” in una dimensione “altra”, dove ci si riunisce in un’atmosfera di estrema gioia e serenità.

Il Nord America ne ha una visione più materiale, ma anche qui c’è l’atmosfera di gioia, dove per una notte si va alla scoperta del nostro lato meno conosciuto.

E noi come la viviamo? Il nostro sentirci superiori  a tutti ci impedisce di festeggiare “materialmente” ma non sappiamo nemmeno inoltrarci in percorsi spirituali, troppo impegnati a criticare gli altri per prendere la nostra strada.

La frase iniziale di King è più profonda di quanto può apparire ad un primo sguardo, forse è proprio questo che ci manca, il coraggio di guardare “oltre”.

Chiudo con questo brano di Reina del Cid, "Hallows Eve", una ballata che ci conduce in un mondo dove il “mostro” non ha l’accezione negativa a cui siamo abituati, la consapevolezza di essere noi stessi individui distinti, diversi, con il desiderio di vivere la notte che illumina le nostre tenebre.

Brano musicalmente eccelso, il testo si produce in rime geniali e ricercate, Halloween aveva bisogno della sua canzone, ora l’ha trovata.

 

“Durante tutto l’anno ci sottraiamo alla nostra paura, ci nascondiamo dai nostri demoni finché non appare la luce del giorno.

Ma in una notte consacrata, quando la luna è giusta, cerchiamo l’oscurità e accettiamo lo spavento …”

(incipit del brano)


sabato 23 ottobre 2021

Nutrire l'arte con la passione (e non solo) Giovanni Anselmo

Giovanni Anselmo – Senza titolo (Scultura che mangia) 1968

Granito, rame e lattuga

Collezione privata



Un blocco di granito legato, mediante un filo di rame, ad un pilastro dello stesso materiale, tra i due blocchi è inserito un cespo di insalata.

L’opera senza titolo, conosciuta come “Scultura (o struttura) che mangia” viene realizzata nel 1968 dall’artista piemontese Giovanni Anselmo, noto esponente dell’arte povera.

Come spesso accade di fronte ad opere come questa si resta spiazzati, senza alcuna indicazione ci si deve fermare a riflettere per venirne a capo.

Partiamo dai materiali, il granito, che rappresenta l’eternità e l’insalata simbolo dell’effimero, il primo resiste nel tempo facendo la storia, il secondo scompare dopo pochissime ore e non lascia nulla dietro di sé.

Anselmo realizza un’unione in cui i due materiali non possono fare a meno l’uno dell’altro, a fare da legante troviamo un terzo componente, il filo di rame anch’esso imprescindibile per il mantenimento della scultura.

Questo però non basta, è necessaria un’altra presenza, quella umana, infatti senza l’intervento di quest’ultimo  la struttura perderebbe presto il proprio equilibrio finendo per scomporsi.

Tra i due blocchi di granito è inserita l’insalata che fa da spessore, nel giro di pochi giorni (o di poche ore) quest’ultima inizia a deteriorarsi perdendo la propria consistenza, a quel punto viene meno il “cuscinetto” verde tra i due blocchi a cui non resta che dividersi, il più piccolo cadrebbe a terra mettendo fine alla scultura.

Per mantenere intatta l’opera il proprietario deve quotidianamente intervenire per sostituire l’insalata marcescente con una fresca, solo cosi il lavoro di Anselmo continuerà ad esistere.

L’uomo nutrendo il granito con un semplice cespo di verdura mantiene in vita la scultura, ma soprattutto mantiene vivo il concetto artistico del geniale scultore.

L’arte viene dunque alimentata dalla passione, una semplice dimenticanza è sufficiente per cancellare l’idea, naturalmente l’idea stessa può essere ripristinata rimettendo al loro posto i vari componenti ( Giovanni Anselmo ha allegato alla scultura le istruzioni che indicano come e dove devono essere posizionati) la “struttura” riprenderebbe a vivere ma che da quel preciso istante necessita di cure quotidiane, imprescindibili per l'eternità dell'opera.


sabato 16 ottobre 2021

L'artista e la proiezione di sé sul mercato

“Un arista che vuole avere successo non è più un artista. E’ una persona che vuole avere successo”.

Piero Fornasetti mette in luce (sottolineo mette perché, anche se scomparso, è ancora attuale) la differenza tra l’arte ed il successo ricercato tramite l’arte.

L’artista crea la proiezione di un futuro che la persona comune non può comprendere nel presente, la ricerca del successo porta ad accontentare il mercato fatto da persone comuni, che in quanto tali rifiutano ciò che non conoscono.

Se l’artista vuole il profitto, conseguenza della celebrità, deve per forza abbandonare il suo essere visionario e di conseguenza decade il suo essere artista.

E’ impossibile seguire la corrente, strizzare l’occhio la mercato mantenendo il proprio percorso artistico, semmai si può orientare il gusto del pubblico e solo in seguito dare a quest’ultimo ciò che vuole, o crede di volere.

Un artista deve essere innanzitutto sé stesso, se dovesse cedere al “mercato” finirebbe con l’essere quello che gli altri vogliono con la conseguenza di perdere l’essenza artistica e diventare un semplice, anche se talentuoso, realizzatore di idee altrui.

Il successo e il denaro (inutile nasconderci, il profitto è alla base dell’inseguimento della fama) devono essere raggiunti grazie alle proprie idee che devono essere la base di partenza di un percorso artistico, se al contrario si antepone la “visibilità” all’idea … non è più arte.


Nell'immagine: Vincent Van Gogh - Natura morta con tavolo da disegno, pipa, cipolle e cera, 1889. Olio su tela cm. 50 x 64 - Museo Kröller-Müller, Otterlo

sabato 9 ottobre 2021

Alla ricerca dello spazio nel tempo

L’altro giorno stavo discorrendo sulla vastità dell’universo, non tanto sulle reali dimensioni dello spazio cosmico quanto sulla percezione che noi piccoli esseri, abitanti della terra, abbiamo del concetto di infinito rapportato all’universo stesso.

Se escludiamo chi è addentro alle questioni “astronomiche”, sia che si tratti di chi lavora in questo campo (ricercatori, astrofisici,  astronauti ecc.) o semplici appassionati, per l’umanità “media” il concetto di infinito è di difficile assimilazione, la visione è ristretta, l’apertura mentale ha dei naturali confini, inoltre va aggiunta la diffidenza verso ciò che non conosciamo che può sfociare (in particolare per chi vive con i paraocchi) nella negazione.

Prendendo spunto da questo scambio di opinioni ho riportato il senso del discorso su un altro “universo” infinito, il lato non materiale dell’uomo.

Mentre l’astronomia mi affascina ma non mi permette di andare oltre in quanto non ho le minime coordinate per andare troppo lontano, l’arte e la filosofia sono campi che mi affascinano e mi appassionano al punto che da tempo (con risultati da verificare) sono materia di studio.

Le arti e la filosofia sono il mezzo e le mappe (cosa sia l’uno e cosa le altre devo ancora scoprirlo) che ci permettono di navigare alla scoperta del “pensiero” umano anch’egli infinito, dove questa navigazione possa portarci è impossibile da dire, la stessa cosa vale per i viaggi spaziali.

Chi è all’oscuro dei concetti legati alla scoperta del cosmo tende a sottovalutare la scoperta stessa, ignora, quando non denigra, ogni “conquista”, intesa come conquista intellettuale più che una vera colonizzazione, arrivando a negare che questi “viaggi” si facciano veramente.

Nell’arte è pressappoco la stessa cosa, chi non ha conoscenze reagisce in due modi, se ha un po’ di buonsenso quantomeno  ignora l’argomento e si dedica ad altro, in caso contrario ce li troviamo a venderci come certezza il fatto che non comprendendo la visione dell’arte in prospettiva negano che la stessa possa esistere.

Un appassionato che si dedica alla ricerca “cosmica” quando si trova davanti a qualcosa di sconosciuto ha una sola reazione, cercare di comprendere quello che ha scoperto, cosi si comporta l’appassionato delle arti (poesia, pittura, musica, non importa quale forma d’arte) davanti a ciò che non comprende cerca l’appiglio per entrare in contatto con la novità, non la scarta a priori ma ne cerca il senso.

Nell’immagine: Anish Kapoor, Moon Mirror (2014) Acciaio inossidabile e lacca, diametro 114 cm; Collezione privata


sabato 2 ottobre 2021

Il traguardo artistico, la meta agognata.

Inutile ribadire la celebre frase di Pablo Picasso sul saper dipingere come Raffaello e come un bambino, ma è da questo che dobbiamo partire per comprendere, o cercare di interpretare, la sequenza “picassiana” dei tori.

Realizzata tra il 1945 e il 46 questa “evoluzione” rappresenta la sintesi del concetto artistico di Picasso.

Alla prima apparizione in pubblico dell’ultimo segmento della serie il pubblico si è scatenato in un’infinita serie di giudizi: da chi pensava ad una rappresentazione di un “graffito” preistorico a chi collegava il disegno all’arte primitiva. Naturalmente la maggior parte degli astanti ha dato vita alla fiera delle banalità con il classico e disarmante “lo sapevo fare anch’io” (quelli che sanno già tutto sono sempre esistiti).

Per realizzare questi disegni serve la capacità di rappresentare il reale, conoscere l’anatomia del soggetto, avere le competenze tecniche del disegno, saper coglier l’essenza di ciò che si vede.

La percezione che possiamo avere davanti a questa sequenza varia a seconda di come affrontiamo i disegni, possiamo passare direttamente dal primo all’ultimo, saltando quelli intermedi o, invertendo il percorso, dal nucleo finale al soggetto reale, in entrambi i casi noteremmo immediatamente la differenza, in quanto a coglierne le sfumature …

Possiamo seguire il percorso seguendo quello fatto dal pittore scomponendo il toro fino ad apprezzarne (non necessariamente dobbiamo apprezzare, almeno possiamo comprendere) l’essenza o al contrario partire da quest’ultima per tornare alla realtà.

Questa “lezione” che il pittore di Malaga ci ha impartito ha valore ancora oggi, viviamo in un contesto dove tutti cerchiamo accanitamente il superfluo, amiamo la sovraesposizione, accumuliamo inutilità, di conseguenza copriamo, fino a soffocarla, la sostanza, siamo seppelliti da ogni tipo di orpello, siamo indirizzati dalla parte opposta, come se il nostro essere interiore sia troppo “pesante” da sopportare.

Una delle frasi che il pubblico di allora, e quello di oggi, non si è mai risparmiato è: “questo lo sa fare anche un bambino”, penso che queste parole siano il più grande complimento che si possa fare a Picasso, da piccolo sapeva dipingere come Raffaello, solo dopo tanti anni di lavoro e sacrificio finalmente è riuscito a dipingere come un bambino.














sabato 25 settembre 2021

L'abbandono, il congedo, l'addio. Edward Hopper

      

Edward Hopper – Two comedians (Due attori) 1966

Olio su tela - cm 73,7 x 101,6

Collezione privata


Universalmente riconosciuto come testamento pittorico dell’artista americano questo dipinto rivela l’idea artistica di Hopper permettendoci di uscire definitivamente dal fraintendimento che la sua pittura ha causato.

La conferma di una lettura quantomeno superficiale è venuta con gli avvenimenti di quest’ultimo anno e mezzo dove le città deserte sono state “accostate” alle opere di Hopper.

Non solo non ha mai confermato la teoria della “solitudine” nei suoi dipinti ma ha spesso ribadito il contrario, la rappresentazione dell’essenziale, l’unicità soggettiva più importante della “moltitudine che inevitabilmente soffoca l’individualità.

Two comedians, ultimo lavoro del pittore americano che morì l’anno dopo, è l’epilogo di una vita dedicata all’arte, un’esistenza che, grazie alla pittura, ha tracciato un sentiero che altri hanno cercato di percorrere cadendo però nella trappola della malinconica solitudine.

I due attori sul palco si accingono a salutare il pubblico, a ringraziare chi ha partecipato alla commedia, i volti dei personaggi sono quelli di Hopper e della amata Jo, vestiti da pierrot, un omaggio alla commedia dell’arte, svelano quella che è stata la loro vita artistica: recitazione.

La struttura del dipinto è semplice, lo sfondo scuro, anonimo, da risalto alle due figure che salutano la platea, il verde laterale costituisce l’allestimento scenografico, le due linee orizzontale e verticale delimitano il palco.

L’attore-Edward si rivolge al pubblico presentando l’attrice-Jo, riconoscendone i meriti maggiori nella riuscita dello spettacolo, al contempo lei, quasi intimidita si approccia al proscenio timidamente come se temesse di togliere spazio al compagno.

L’intimo atteggiamento della donna è l’ennesima  rappresentazione della concezione artistica di Hopper, l’essenziale che si distingue dalle masse, l’unicità e la grandezza del singolo che emerge nel silenzio.


sabato 18 settembre 2021

Semplice goliardia o concetto basilare?

Una domanda fondamentale che non trova (mai) una risposta definitiva.

A volte i “social” ci ripropongono notizie e relativi commenti del passato più o meno recente, in questo caso viaggiamo a ritroso nel tempo per un solo lustro e comprendiamo quanto lentamente scorre il tempo (culturalmente) non potevamo che aspettarci la contemporaneità di questa notizia.

Siamo nel 2016 e all’interno del Museum of Modern Art di san Francisco va in scena quello che all’apparenza sembra uno scherzo atto a mettere alla berlina la considerazione che il pubblico “museale” ha dell’arte ma che invece tiene aperta la questione “arte concettuale”.

Molti ricorderanno l’idea di due giovani californiani che hanno semplicemente posato per terra un paio di occhiali in corrispondenza della targhetta che indicava il tema artistico della sala.

La reazione per molti è stata sconvolgente (in modo negativo) mentre per altri è sembrata meno sorprendente e soprattutto meno “stupida” di quanto la si volesse far passare.

I visitatori del museo davanti al paio di occhiali si sono comportati come se fossero davanti ad un’opera d’arte, alcuni con scetticismo, altri con curiosità, altri con entusiasmo.

I media di allora hanno commentato la vicenda limitandosi a schernire il pubblico “incapace di capire cosa sia arte e cosa non lo sia” ignorando quello che è, a tutt’oggi, il quesito fondamentale: cosa è arte e cosa non lo è?

All’interno del Museum of Modern Art di San Francisco i due giovani “creano” la scena per un semplice scherzo (posteranno sui social la reazione dei visitatori).

Non so quanto sia “ricercata” questa azione, probabilmente seguivano solo la moda della trappola in video per poi deridere chi ci casca(cosa che hanno fatto in molti). A distanza di cinque anni (comunque troppo pochi per avere un primo resoconto storico) si ribaltano le gerarchie, allora i ragazzi erano i “furbi”, i visitatori del museo gli idioti, i media i “professoroni” che deridono gli ingenui appassionati d’arte.

A distanza di tempo, secondo il mio personale pensiero, i ragazzi ne escono senza infamia e senza lode, i media e tutti quelli che hanno deriso chi si è lasciato coinvolgere hanno fatto la solita figuraccia da “sapientoni” senza competenza alcuna, mentre i visitatori hanno lasciato aperto un argomento che molti (quelli che “portano” i paraocchi) vorrebbero chiudere.

Continuo a pensare che la reazione del pubblico ci ha mostrato una visione dell’arte sempre più ampia e che non ci si ferma, come spesso accade, ai concetti del IXX secolo, periodo che purtroppo resta basilare per i canoni odierni.

Dopo cinque anni l’idea, che potrebbe essere considerata geniale se solo fosse nata con questo obbiettivo, si è rivelata “illuminante”, ha svelato la sensibilità di certo pubblico capace di incuriosirsi davanti all’apparente banalità, il rischio di sembrare ingenui è un prezzo minimo da pagare se ci permette di guardare oltre.

sabato 11 settembre 2021

L'arte racconta la follia umana

Sicuramente una delle “esibizioni” artistiche più controverse e inquietanti, Marina Abramovic ha raggiunto profondità che nessuno aveva mai osato pensare, ha rischiato oltre il lecito.

Siamo a Napoli nel 1974 nella Galleria Morra, la performer serba mette in scena quella che possiamo definire la follia artistica per eccellenza, una performance che ha sconvolto il mondo intero.

La Abramovic ha voluto dimostrare cosa succede se ci affidiamo completamente agli altri, lasciando assoluta libertà d’azione, lo ha fatto mettendo in gioco sé stessa come artista e affidando a degli sconosciuti la propria vita.

Il “gioco”, dalla durata di sei ore, consisteva nell’interazione tra l’artista ed il pubblico, da una parte la Abramovic stessa perfettamente immobile, dall’altra un tavolo su cui erano posati alcuni oggetti (esattamente 72) che andavano da una rosa ad un profumo, da un bastone ad una lametta, una mela, delle forbici, un coltello, una medaglia, del vino ecc. fino ad una pistola con un colpo in canna.

Il pubblico poteva utilizzare qualsiasi oggetto sul corpo della Abramovic, poteva semplicemente accarezzarla o ferirla, lei stessa aveva affermato che: “il pubblico può uccidermi”.

All’inizio i presenti hanno iniziato timidamente a rapportarsi con lei, qualche carezza, qualcuno che le porge la rosa, altri si limitano a parlarle.

Col passare del tempo il pubblico si rende conto che può andare oltre senza che la performer decida di reagire, ecco che cominciano a tagliarle i vestiti, le carezze innocenti si trasformano in palpeggiamenti più “intimi”, qualcuno conficca le spine della rosa nella pelle arrivando a succhiarne il sangue, l'a tensione sale febbrilmente finché una persona mette in mano all’artista la pistola carica mettendole il dito sul grilletto mettendola in condizione di sparare, a quel punto è intervenuto il gallerista che infuriato ha gettato la pistola fuori dalla finestra.

Allo scadere delle sei ore la Abramovic, ferita nel corpo ma forte nello spirito, si è immediatamente diretta verso il pubblico che a sua volta si è frettolosamente allontanato non essendo in grado di reggerne lo sguardo.

Marina Abramovic (andando oltre ogni logica, secondo il mio pensiero) ha voluto dimostrare: «…  che se ti affidi e ti abbandoni al pubblico, loro possono arrivare ad ucciderti …».

Secondo alcune testimonianze dell’epoca sono stati soprattutto i maschi ad infierire sul corpo della donna ma hanno notato quanto il pubblico femminile li abbia incitati ad agire, questo evidenzia il fatto che nessuno si può ergere a moralizzatore.

Non deve ingannare l’atteggiamento della Abramovic che non ha battuto ciglio durante le sei ore fatidiche, la giovane donna ne è uscita sconvolta e terribilmente spaventata, a confermare tutto questo il ricordo indelebile di quello che è successo (dello stato d’animo in quelle ore) una ciocca di capelli bianchi è apparsa a sottolineare l’evidente shock emotivo oltre che fisico.

Non so cosa abbia spinto l’artista a osare oltre ogni limite del buon senso, se fiduciosa che non ci si potesse spingere cosi in basso o, spinta da “ideali” a noi sconosciuti, sperando che la dimostrazione raggiungesse l’obbiettivo.

Siamo abituati, o perlomeno lo erano fino ad allora, ad una concezione dell’arte legata alla sfera visiva e fatichiamo tutt’ora a comprendere ciò che è andato in scena quel giorno, quale sia il livello artistico raggiunto non sta a me deciderlo ma il livello umano ha toccato una profondità "oscura" non indifferente.

Un'altra considerazione va fatta, che esula parzialmente dalla performance in questione, quello che è successo quel giorno (ribadiamo che siamo nel 1974) sarebbe potuto andare in scena oggi? dubito fortemente che in una galleria aperta al pubblico nel 2021 ne avrebbero permesso la realizzazione, se sia un bene o meno ...