venerdì 15 marzo 2024

L'architettura tra arte e ...

«L’architettura non è un’arte, poiché qualsiasi cosa serva ad uno scopo va esclusa dalla sfera dell’arte»

Adolf Loos, architetto austriaco, cerca di mettere un confine tra l’architettura “artistica” e quella pratica.

Sosteneva infatti che nell’architettura «è il concetto che può arte, non la costruzione in sé».

Muller house (1930) a Praga by Adolf Loos

Non è certo mia intenzione avvalorare o confutare questo punto di vista ma trovo interessante prenderlo in considerazione.

Chi mi conosce potrebbe sostenere che avvalorare questa ipotesi sarebbe un modo di affermare il mio pensiero, l’arte è soprattutto concetto.

Se è complesso trovare un equilibrio, ed impossibile avere una risposta, non è meno complicato stabilire il baricentro nella congettura di Loos.

Ogni abitazione, singola o meno, ha il compito di rendere il più possibile confortevole la vita di chi vi dimora, ripararci dal freddo, dal caldo, dalle intemperie, e da tutto ciò che ci è ostile, questi sono i compiti basilari di una casa.

Poi ci sono le cosiddette comodità, dove la bellezza, il piacere dell’abitare emergono, non sono vitali ma aiutano a vivere meglio.

Tutto questo non è automaticamente arte anzi, non lo è mai, cos’è allora che rende artistica l’architettura?

Loos dice che è il “concetto”, il pensiero, che vale per qualsiasi forma d’arte, che vede oltre il visibile.

Spesso è considerato “artisticamente meraviglioso” tutto ciò che è di grandi dimensioni, stadi, palazzi sempre più alti, costruzioni sempre più imponenti, ma l’arte non può essere questo, l’artista spinge lo sguardo più lontano, concettualmente non materialmente, ecco perché un grattacielo alto più di 500 metri non è arte per la sua imponenza, lo può essere ma per farlo deve spingersi nel futuro, pur poggiando le sue basi nel presente.


domenica 10 marzo 2024

50 anni in "Compagnia", da Sannia a Vasco passando per Battisti, Parodi e Mina

La Compagnia, un brano scritto dal duo Mogol-Donida nel 1969 per la voce di Marisa Sannia, passato sotto traccia ottiene una discreta fama nel 1976 quando ad interpretarlo è Lucio Battisti.

La cover del 45 giri originale

Nel 1982 è il gruppo sardo Il coro degli angeli ad inciderlo, due anni dopo tocca ai Tazenda (in entrambi i casi con la voce di Andrea Parodi) nel 1988 tocca a Mina.

Quasi vent’anno dopo, siamo nel 2007, è Vasco Rossi a rilanciare il brano, un pezzo che nonostante il testo e le musiche di grande spessore, oltre all’interpretazione di grandi interpreti, non riuscirà mai a decollare definitivamente.

Lascio ad ognuno il giudizio sulla canzone e mi concentro sulla percezione del pubblico, almeno di chi la conosce, e delle differenti interpretazioni e arrangiamenti che si sono susseguiti in mezzo secolo.

I più giovani partono dal pezzo di Vasco Rossi e andando a ritroso nel tempo rischiano di rimanere spiazzati dalle versioni più soft del passato, chi invece ricorda gli esordi della Sannia fatica a comprendere lo stravolgimento degli artisti che l’hanno eseguita in seguito.

Scritta appunto per Marisa Sannia l’originale mostra gli anni che ha e ci riporta ad un periodo dove erano in atto dei cambiamenti epocali ma dove certa musica italiana sembrava non accorgersi.

Lucio Battisti non ha bisogno di presentazioni, è uno dei più grandi artisti in assoluto ma ascoltando attentamente il pezzo in questione possiamo capire perché non è uno dei suoi pezzi più riusciti, anche i grandi non sono infallibili, questa canzone non è nelle sue corde, si nota uno sforzo innaturale che sminuisce sia il cantante che la canzone.

Nonostante la voce eccelsa di Andrea Parodi anche le versioni dei primi anni ottanta passano senza lasciare segni evidenti, questo conferma (se ce ne fosse stato bisogno dopo Battisti) che il brano è tutt’altro che semplice, o lo si disegna su misura o il rischio è quello di naufragare.

Il primo serio tentativo è quello di Mina, altro mostro sacro, che trasforma la canzone con un arrangiamento blues, dove a tratti veniamo avvolti da un’atmosfera da ballata jazz, in questo caso il pubblico si divide, gli amanti di Mina lo definiscono un capolavoro, i suoi detrattori: “un pezzo da dimenticare”.

Passano 19 anni e a riproporre il brano ci pensa Vasco Rossi, premetto che la mia stima per il cantante di Zocca è vicina allo zero, ma dal mio punto di vista è questa la versione che più mi convince, riesce a dare un’anima ad un pezzo che sembrava averla smarrita, un arrangiamento più rock (per quanto riesca ad essere rock la musica di Vasco) che finalmente trova il suo abitat naturale.

Non possiamo però ignorare che siamo di fronte  ad un arco temporale molto ampio, il mio punto di vista potrebbe far pensare che Mogol e Donida avessero scritto una canzone in anticipo sul tempo, ma è altresì fondamentale considerare che il nostro vissuto e il nostro contemporaneo hanno intrapreso una strada diversa da quella che, per chi c’era, veniva percorsa negli anni settanta.

Inoltre devono essere presi in considerazione i gusti personali, le simpatie per i vari interpreti (anche se queste ultime, per quanto mi riguarda, non influiscono minimamente sul giudizio) e gli stati d'animo del momento in cui ascoltiamo il brano, indipendentemente da chi lo propone.

Qualcuno dirà che in fondo si tratta solo di canzoni ma, come in ogni altro ambito artistico, fermarsi al primo ascolto potrebbe essere un’occasione persa.





martedì 5 marzo 2024

L'enigma del "lago", Cy Twombly

Questo è uno dei 14 grandi dipinti della serie Bolsena, tutti realizzati alla fine dell’estate del 1969. Si era rifugiato in assoluta solitudine, Twombly è sempre stato un personaggio schivo e riservato, in una casa di pietra affacciata sul lago di Bolsena.

Cy Twombly (Edwin Parker, Jr.) – Senza titolo (Bolsena)  1969 – cm 199 x 240 – National Gallery of Art Washington D.C.

Statunitense di nascita a 29 anni si trasferisce in Italia dove risiederà fino alla morte nel 2011 all’età di 83 anni, difficile dunque non considerarlo un pittore italiano, anche se l’influenza dell’espressionismo astratto americano e i concetti neo-dada di Rauschemberg e Jasper Johns,  sono fondanti per la sua evoluzione artistica.

Ma Cy ha saputo cogliere le infinite opportunità che gli si sono presentate, ha infatti assorbito lo spirito di Dubuffet e soprattutto ha raccolto gli spunti offerti dal “contatto” con Burri e Pietro Manzoni.

L’opera in questione è particolarmente complessa, la mitologia classica, cara al pittore fin dagli esordi, è presente nella misura in cui sappiamo che c’è, non tanto perché la vediamo ma per la sensazione che non possa essere altrimenti.

Scarabocchi, linee, forme, lettere, numeri, abbozzi e cancellature, abbiamo l’impressione di trovarci di fronte alla rappresentazione di un “tavolo” di lavoro dove sta prendendo vita qualcosa, ma di cosa si tratti ancora non lo sappiamo, non ci resta dunque altro da fare che cerare di scoprirlo o immaginarlo.

Se non siamo di fronte al dipinto dobbiamo innanzitutto tenere presente che si tratta di una grande tela, due metri e mezzo per due, questo permette a chi le si pone dinnanzi di immergersi nel lavoro di Twombly, una dimensione ridotta ribalterebbe il risultato.

C’è della provocazione in tutto questo? Se ignoriamo chi sia l’autore, se trascuriamo quello che Twombly è stato ed ha fatto potremmo rispondere in modo affermativo ma, che lo vogliamo o no, non siamo all’oscuro di tutto ciò, per questo parlare di provocazione potrebbe essere un esercizio di superficialità, non possiamo permetterci di essere superficiali.o

Solitario si ma sempre alla ricerca di nuove “influenze”, sempre aperto a nuove tematiche ma al contempo attratto dall’isolamento, il confronto per dare vita all'idea ma solo un autoimposto esilio gli permetteva di viaggiare liberamente con la fantasia pur raccontando il presente, artistico e non solo.


giovedì 29 febbraio 2024

4 personaggi in cerca d'autore.

La tela animata (Le Tableau, il titolo originale) è un raffinato piccolo gioiello d’animazione del 2011 scritto e diretto dall’animatore e regista francese Jean-François Languione.

Produzione franco-belga che conferma la qualità dell’animazione europea che spesso predilige le storie agli effetti speciali.

All’interno di un quadro tre distinte categorie di personaggi condividono un castello, i giardini ed una foresta maledetta dove nessuno osa entrare a causa delle terribili piante carnivore.

I completi, gli incompleti e gli schizzi, i primi prendono possesso del castello e discriminano i secondi impedendo loro di avvicinarsi, gli schizzi sono denigrati da tutti, per i privilegiati “completi” non sono altro che strumenti da utilizzare per lavori forzati, gente senza alcuna dignità.

Il pittore che ha realizzato il dipinto lo ha lasciato incompiuto, alcuni personaggi sono stati completati, altri non finiti, altri ancora sono solo abbozzati.

La storia d’amore tra un “completo” e una “incompleta” non è accettata da nessuna delle due fazioni, per sistemare la difficile situazione ed impedire la tirannia del crudele “Candeliere”, a capo dei completi, un gruppo di persone, una per ogni “casta”, partono alla ricerca del pittore con l’intento di convincerlo a finire la sua opera.

Inizia cosi un’avventura che si snoda tra vari dipinti, il terzetto, a cui si aggiungerà un quarto protagonista, passa da una tela all’altra, uscendo dalle cornici ed entrando in altre.


La meravigliosa “pellicola” ci accompagna tra molteplici riferimenti artistici, palese la presenza di Picasso, Cezanne, Matisse, Mirò, Modigliani, Chagall, Manet, un vortice di colori e poesia che ci avvolge per i 79 minuti della durata.

Il tema del razzismo, della discriminazione, è centrale, un tutt’altro che velato accenno alla stupidità umana che nel suo essere egoista e oppressiva mostra le sue eccezioni che navigano controcorrente.

Il finale dallo spessore filosofico è la classica ciliegina su una torta riuscita benissimo.

Il film è passato quasi inosservato, il budget, limitato, è utilizzato per il film a scapito della promozione (il contrario di ciò che avviene oltreoceano) un peccato perché sicuramente meritava, e merita tutt'ora, uno spazio maggiore.





domenica 25 febbraio 2024

Il passato nel futuro, il presente di Salvador Dalí

Il titolo riassume perfettamente l’essenza dell’opera, ispirato al celebre Angelus di Jean- Francois Millet (di cui ho parlato qui in un post di qualche tempo fa) il dipinto di Dalí ne fa una narrazione antica, un ricordo perso nei meandri del tempo ma che rivive in una costruzione che resiste nonostante tutto.


Salvador Dalí  - Reminiscenze archeologiche dell'Angelus di Millet, 1934 - Olio su tavola
31 x 39 cm. "Museo Salvador Dalí", St. Petersburg (Florida)


Quattro minuscole figure, due al centro in basso, altrettante a destra, sembrano visitare un sito archeologico dove vi è riposto un concetto caro al pittore spagnolo ed estraneo all’artista francese autore dell’originale.

Le due torri prendono le sembianze dei contadini di Millet ma la figura femminile si innalza su quella maschile, anche se il capo chinato cerca un equilibrio che è solo apparente.

Per alcuni la donna prende le sembianze di una mantide religiosa, il pensiero, che non è evidentissimo, potrebbe essere influenzato dall’idea che Dalí aveva dell’equilibrio instabile nella coppia. Il pittore “sentiva” la figura femminile come quella dominante ma non solo, la donna era una minaccia sessuale, da qui l’idea della mantide religiosa.

Dalí stesso affermò che l’arte di Millet era a sua volta la rappresentazione della repressione sessuale, il timore della supremazia femminile in contrapposizione all’impotenza maschile.

Non possiamo certo ignorare tutto ciò, d’altro canto l’autore del dipinto è lui e prenderlo in considerazione ignorando le informazioni che ci sono fornite sarebbe arbitrario.

Possiamo provare ad essere meno “corretti” e affrontiamo l’opera ignorando tutto il resto, le quattro piccole figure osservano il passato, o quello che ne resta cercando di immaginare quello che non c’è più, la trasformazione di un pensiero intimo, quello emerso dal dipinto di Millet, in un vuoto guscio perso nel passato, simulacro che sopravvive a sé stesso, destinato ad essere dimenticato.

martedì 20 febbraio 2024

Questo lo sapevo fare anch'io!

Questo lo sapevo fare anch’io”, quante volte abbiamo dovuto ascoltare la frase simbolo di chi, pur non conoscendo nulla, è convinto di possedere la verità assoluta, il senso fondamentale dell’arte?

Purtroppo centinaia di volte, e non è finita, questa frase riecheggia ogni qualvolta si cerchi di approfondire l’arte contemporanea (ma vengono pronunciate anche davanti ad opere risalenti al primo novecento).

Un esempio può essere quello raffigurato nelle due immagini che accompagnano questo mio scritto, il soggetto è un cane, lo stile e la concezione sono differenti.

Nell’immagine sopra il cane è tratteggiato con una singola linea, niente di particolarmente complesso, servono una mano ferma e un po’ di … idee.

La seconda immagine è meno alla portata di tutti, per questo dipinto servono una tecnica di base, cosa che non appartiene a tutti, e una conoscenza del colore.

Nonostante la seconda opera sia più difficile da realizzare, necessita comunque di un'abilità senza la quale non è possibile darle "vita", ma anche questa non è sfuggita alla celeberrima esclamazione, davanti a questo quadro qualcuno, evidentemente più bravo degli altri (o perlomeno convinto di esserlo) non ha resistito, la frase fatidica, sinonimo di incompetenza e pressapochismo, ha preso il volo.

Se chi esclama queste "magiche" parole si fosse fermato a riflettere anche per pochi secondi sarebbe arrivato alla stessa conclusione? Basterebbe infatti pensare a cosa si cela dietro questi dipinti/disegni per capire che una semplice linea o una apparente accozzaglia di colori sono l’espressione di qualcosa di più grande, il primo cane è l’essenza di sé, il secondo esprime le proprie emozioni, il personale stato d’animo.

Se poi qualcuno si sente in grado di farlo benissimo, complimenti, ma si dovrà accontentare di ri-farlo e di conseguenza avrà realizzato qualcosa di vuoto, senz’anima.

Non è assolutamente vero che queste opere possono essere realizzate da chiunque, quello che emerge dai due “lavori” è molto più potente di quanto ci si possa immaginare, perché alla fine è proprio l'immaginazione che manca ... 

PS. Le due opere di cui abbiamo parlato sono rispettivamente di Pablo Picasso e di Edvard Munch, la storia artistica dei due pittori non necessita certo di essere ribadita, hanno dimostrato costantemente di poter fare ciò che volevano, questo rafforza il concetto contrario alla fatidica frase.


giovedì 15 febbraio 2024

Tutto troppo scontato, i dubbi dietro l'evidenza

La Dama con l’ermellino, dopo la Monna Lisa, è uno dei dipinti di Leonardo da Vinci più conosciuto e apprezzato dagli storici dell’arte (il pubblico invece non sembra andare oltre la Gioconda).



Leonardo da Vinci - Dama con l'ermellino, 1488-90 - Olio su tavola cm 54,8 x 40,3 - Czartoryski Museum, Cracovia


Entrambi enigmatici, entrambi fondamentalmente ancora poco conosciuti nella loro profondità artistica, storica e simbolica.

I titoli, postumi, non aiutano la comprensione, anche se sembrano accertate le generalità dei personaggi rappresentati il mistero è tutt’altro che svelato.

La scritta in alto a sinistra dice: “La Bele Feroniere Leonard d’Awinci”difficile pensare che sia stato Leonardo a scrivere quella frase (evidentemente vergata in modo tutt'altro che corretto) che vorrebbe l’amante di Francesco I di Francia il soggetto rappresentato, la scritta infatti sembrerebbe postuma e dunque poco, o per nulla, credibile.

Cecilia Gallerani è quasi certamente la donna ritratta da Leonardo in questo apparentemente semplice, quadro, ma quel quasi lascia sempre una porta aperta, e se proprio non è aperta non è nemmeno chiusa ermeticamente.

Il committente sembrerebbe Ludovico il Moro, amante della Gallerani stessa che evidentemente desiderava immortalarla “per l’eternità”.

Perché l’ermellino? Ludovico Sforza, il Moro appunto, personaggio, come tutti gli Sforza, potente, spietato e moralmente più che discutibile, era Cavaliere dell’Ordine dell’Ermellino, da qui l’animale tra le braccia della donna.

Al di là del fatto che l’ermellino non è rappresentato in modo impeccabile, il che ci spinge a pensare che, o Leonardo non aveva mai visto un ermellino o qualcosa (o qualcuno) ha voluto raffigurarlo con sembianze più mitologiche che reali (a meno che gli ermellini a quel tempo fossero cosi, ma questo andrebbe ad aprire un dibatto riguardo all’evoluzione della specie).

Da alcuni studi si ipotizza che l'animale in grembo alla fanciulla possa essere un furetto, animale più docile rispetto all'ermellino difficilmente gestibile per un ritratto.

L’opera chiaramente non è finita, la cura dei dettagli di parte del dipinto è accurata, ma non lo è altrettanto in altri punti, volontà dell’artista o qualcosa è andato storto?

All’apparenza non sono molti i particolari che ci permettono di fantasticare sul vero filo narrativo del quadro (la già citata Gioconda, al contrario, ne è piena) ma è proprio questo il motivo che ci spinge ad avere alcuni dubbi, o quantomeno alcuni spunti di riflessione, è tutto troppo semplice.

Se andiamo a leggere i molti libri dedicati a questo dipinto scopriamo molti particolari che emergono più da personali letture che da vere e proprie "tracce" da cui partire per decodificare il quadro.

Più della Gioconda, usata e abusata al punto di essere artisticamente svalutata (o quantomeno banalizzata) da un consumo superficiale, più delle "Vergini delle rocce" che danno vita ad una narrazione lineare e meno criptica, la "Dama con l'ermellino" sembra dire qualcosa ma senza completare il proprio percorsostorico e artistico. Se si tratta di un'opera incompiuta (come sembra) o di qualcosa di voluto dal suo autore è difficile da stabilire, resta innegabile il fatto che trovare una quadratura è parecchio complicato.  


sabato 10 febbraio 2024

[Aforismi e Arte] L'istante infinito

"Se non c’è seduzione, non c’è fotografia. Devo essere sedotto e sedurre la persona che ritraggo per 1/125 di secondo. Tutto si azzera nell’istante del flash. Tutti pensano che l’eterno istante sia la fotografia, e invece è l’esplosione del flash, quell’attimo di bianco assoluto e di totale pulitura. Poi c’è un mondo nuovo. Ho anche imparato a eliminare il senso del tempo".

(Giovanni Gastel)

Foto by G. Gastel - serie:  Angeli caduti