mercoledì 10 dicembre 2025

Quanto è importante ...

Un commento, ad un mio recente post, dell’amica Pia mi ha offerto lo spunto per una riflessione: quanto è importante sapere se un artista che crea opere prettamente concettuali sappia o meno disegnare?

Naty (Natalia Caragherghi) – Il Dubbio – Olio su tela  cm 60 x 80


La nostra percezione cambia in base alla risposta che otteniamo?

Tralasciamo naturalmente tutti quei pittori che pur non realizzando opere figurative non lasciano dubbi sulle solide basi su cui la loro arte si regge.

Faccio fatica a pensare che un artista sia completamente negato nel disegno, un pittore astratto non realizzerà mai niente di convincente (che non significa che ci piaccia) senza partire dalle fondamenta del disegno, non tanto nella tecnica quanto nella conoscenza degli schemi che, se disattesi, non permettono quell’armonia fondamentale per un lavoro quantomeno accettabile.

Anche una performance nasce da basi simili o non necessita di queste competenze?

I lavori di Christo e Jeanne Claude ci hanno regalato installazioni incredibili, naturalmente sappiamo che erano degli eccellenti disegnatori, ma è importante avere la certezza che sia cosi o la nostra “lettura” di “Floating Pearce” muta completamente a seconda delle capacità del geniale duo?

Come avevo già accennato in risposta all’intrigante spunto di Pia ho sempre sostenuto che lo studio, la conoscenza dell’artista, siano fondamentali nell’approccio alle opere, questo inevitabilmente influenza il nostro pensiero che si fa più critico nel momento che abbiamo maggiori informazioni (anche se c’è qualcuno che pensa, con il diritto di farlo, che sia più importante la sensazione che proviamo al primo sguardo).

Chi non conosce Picasso (sono molti di più di quello che immaginiamo) rimangono stupiti nel vedere le opere giovanili dopo aver sostenuto che non sapeva disegnare e di conseguenza realizzava dipinti “senza senso logico”.

Nel momento in cui scoprono che il pittore spagnolo sa disegnare, e in modo eccelso, si chiedono perché avesse preso la strada del cubismo, questo è servito per approfondire, se fossero rimasti alla prima percezione non avrebbero mai scoperto la grandezza dell'artista.

Ma torniamo al quesito iniziale, quanto è importante sapere se Marina Abramovic sappia o meno disegnare nel momento in cui le sue performance vanno in una direzione differente? Maurizio Cattelan sa disegnare? Piero Manzoni sapeva disegnare? (spoiler: si) ma davanti ai suoi “achrome” è importante saperlo?

Alla fine la domanda di Pia ha una (mia) risposta, certo che è importante saperlo ma l’esito del quesito non inficia e non convalida l’opera, in entrambi i casi il giudizio va oltre questo particolare anche se conoscerlo aiuta a comprendere l’artista.

Il commento della nostra cara amica si chiude con “ecco perché prendo tutto con le pinze”, ed è questo il comportamento che dobbiamo tenere, evitare di prendere tutto per buono (o cattivo) in base al punto di vista altrui, dobbiamo tenere sempre alta la guardia e studiare a fondo per poter avere un nostro angolo visivo, ma per arrivare a questo dobbiamo guardare molto in profondità sapendo che tale “luogo” non riusciremo mai a raggiungerlo. 

domenica 30 novembre 2025

I semplici tratti (caratteriali) dell'arte

Davanti a questa piccola tela difficilmente pensiamo di trovarci immersi nell’arte di inizio novecento, il semplice ritratto di una giovanissima donna dalla chioma ramata sembra realizzato nel tempo che stiamo vivendo.

Helene Schjerfbeck – La ragazza dai capelli rossi, 1915 – Olio e grafite su tela cm 37 x 36 – Art Museum Gösta, Mänttä


Questo ci può portare ad alcune considerazioni, è una fuga dagli stravolgimenti artistico culturali dell’epoca (il dipinto è datato 1915) o la proiezione è spinta tanto lontano che dopo oltre un secolo è fresca, attuale?

Gli illustratori, i pittori in generale hanno subito l’influenza delle opere di Helene Schjefbeck tanto da ripercorrerne il sentiero dando vita ad un’arte contemporanea che si contrappone, o meglio, affianca quella più concettuale che oggi va per la maggiore?

Il dipinto è semplice (sempre apparentemente) niente fronzoli, niente esibizione di fredda tecnica fine a sé stessa, è il ritratto di uno stato d’animo, di una sensazione, il tempo si ferma per un attimo cogliendo la protagonista nella profondità di un’emozione.

Qual è l’emozione che la pittrice finlandese decide di immortalare? La risposta sta nello stato d’animo di chi osserva, ognuno di noi può, senza il rischio di essere smentito, dare una propria lettura.

Ad un primo sguardo, probabilmente per alcuni anche ai successivi, non sembra trasparire nulla di particolarmente importante, ma è proprio questa apparente semplicità, che sfocia nel quotidiano vivere, nel banale corso delle emozioni personali che non appartenendoci perdono valore a causa della nostra superficialità, un’attenzione ridotta allo zero quando non si tratta di noi. Troppo spesso non cogliamo l'intensità altrui, se non ci appartiene non notiamo alcunché di ciò che ci circonda.

Eppure questo dipinto ci parla, lo fa con un linguaggio che non riconosciamo, o non vogliamo riconoscere, siamo chiusi da una morsa che ci vede da una parte ignorare ciò che sembra scontato, mente dall’altra ci aspettiamo che l’arte comunichi utilizzando un codice complesso, lamentandoci poi di non saperlo decifrare, e per questo passare oltre. 

giovedì 20 novembre 2025

Qual è il risultato?

Questo lo facevo anch’io (odiosa affermazione che tutt'ora esce dalle bocche dei detrattori dell'arte dell'ultimo secolo)… e infatti l’ho fatto, o almeno ci ho provato, qual è però il risultato?



Non avendo la minima possibilità di possedere un “taglio” di Lucio Fontana me lo sono costruito in casa.

I celebri, e bistrattati, concetti spaziali dell’artista italo argentino da sempre mi affascinano e mi donano, quando ho la possibilità di ammirarli, un’assoluta serenità, un pace interiore che solo poche altre opere riescono a regalarmi.

Dunque è vero che un taglio di Fontana lo può fare chiunque? Tecnicamente sono in molti a poter rifare (fondamentale quel “ri” davanti al “fare”) questo tipo di opera ma qual è il risultato ottenuto?

Come detto io ci ho provato, ho preso una tela, l’ho trattata e colorata di bianco (i tagli bianchi e rossi sono i miei preferiti) con un taglierino, non avevo un bisturi, strumento che il nostro Lucio alternava al taglierino stesso, con una lama nuova ho fatto due tagli netti, seguendo le istruzioni raccolte nei libri e sul web ho applicato dietro ai tagli delle garze nere che danno profondità allo “spazio” e impediscono ai tagli di continuare la divisione della tela.

Tecnicamente non è un granché, anche se a prima vista il senso è chiaro e in fondo anche questa brutta copia un po’ di pace me la regala, concettualmente è il nulla assoluto, semmai mi trovo di fronte ad un surrogato che goliardicamente ottiene il suo posto a tavola (la mia tavola) ma niente di più.

Chiunque di voi mi può far presente che il risultato tecnico è scarso perché scarsa è la mia tecnica (ammetto che avrei potuto fare di più in quanto ho utilizzato il colore acrilico al posto dell’idropittura usata da Fontana (che gli permetteva di cogliere l’attimo in cui tagliare grazie al fatto che l’asciugatura è più lenta) ma se il risultato visivo fosse stato migliore sarebbe cambiato qualcosa? Naturalmente no, un opera esclusivamente concettuale va oltre la tecnica, se anche avessi fatto i tagli più vicini alla perfezione di quelli di Fontana non avrei mai avvicinato le opere originali per il semplice motivo che l’ho fatto in ritardo.

Se il mio “taglio” avesse anticipato quelli dell’artista di Buenos Aires, avrebbe diritto ad essere al centro dell’attenzione indipendentemente dalla tecnica utilizzata.

Anche le opere apparentemente facili da copiare (cosa molto meno probabile di quanto si pensi) perdono consistenza per il solo fatto di arrivare dopo, il tempismo è fondamentale ma non si tratta solo di arrivare prima, ciò che conta è avere l’idea giusta nel momento giusto.

A me resta l’immenso piacere provato nel realizzare quest’opera (con migliaia di virgolette) sempre pronto a cogliere al volo l’occasione di ammirare gli originali. 

lunedì 10 novembre 2025

Il dipinto premonitore

Victor Brauner ritrae sé stesso senza un occhio, non si tratta di un occhio ferito, lesionato, spento, l’occhio non c’è, è stato esportato.

Victor Brauner - Autoritratto , 1931 – Olio su tavola cm 22 x 16


Non si sa il motivo per cui Brauner si sia ritratto in queste condizioni in quanto non aveva alcun problema di vista, aveva due occhi entrambi funzionanti.

Va detto che gli occhi e la loro “posizione” decontestualizzata vengono rappresentati spesso, in un dipinto il pittore dipinge con gli occhi, in un altro sono incastonati nel palmo di una mano, atri ancora rappresentano oggetti inanimati (come un tavolo) che prendono vita in quanto in possesso di occhi vigili. Nulla però di cosi esplicito come un suo autoritratto con l’orbita oculare vuota ed il sangue che scorre a dirci che la causa di ciò è un gesto violento.

Sette anni dopo, durante una delle tante convulse serate surrealiste, dove spesso finiva in rissa a causa delle contestazioni del pubblico che non amava farsi insultare, e dall’eccesiva circolazione di bevande alcoliche, gli “scontri” vanno un po’ oltre, una persona completamente ubriaca lancia una bottiglia, il destinatario riesce a schivarla ma Brauner no, una scheggia di vetro, o la bottiglia stessa (le versioni variano) colpisce in pieno viso l’artista rumeno danneggiandogli irrimediabilmente l’occhio, la corsa all’ospedale non serve a ridargli la vista ma neppure a salvare il globo oculare che verrà espiantato. In seguito il gruppo di amici farà una colletta per acquistarne uno di vetro.

Nel dipinto del 1931 dunque il pittore aveva previsto tutto? Difficile pensare che sia cosi ma è altrettanto incredibile pensare che un incidente tanto raro e difficile da preventivare fosse il soggetto di un opera di sette anni prima.

L’occhio che indaga in profondità e la perdita dello stesso, l’incapacità dell’uomo, nel tempo, di saper andare oltre il visibile, la perdita di quell’occhio interiore che ci spinge ad accettare il fatto che ci basti quello che c’è in superficie, cosa che spesso coincide con la banalità.

Forse proprio per il dilagare di tale mediocrità spinge il pittore a rifugiarsi in montagna e a proseguire la propria esistenza in solitudine.

giovedì 30 ottobre 2025

Un piccolo passo per l'arte, un grande passo ...

Un’opera che scompiglia le carte nel mondo artistico del tempo, una visione che decide di andare oltre l’armonia dei canoni umanistici che permeavano la pittura in quel periodo storico ricordato come il Rinascimento.

Rosso Fiorentino (Giovanni Battista di Jacopo) – Deposizione dalla croce (Deposizione di Volterra) 1521

Olio su tela cm 375 x 196 – Pinacoteca e Museo civico, Volterra

La realtà non è più raffigurata come l’artista la vedeva ma ad emergere è ciò che il pittore “sente”, concetto che torna prepotentemente agli inizi del 900.

Le forme, i movimenti, il colore, tutto sembra irreale in un contesto riconoscibilissimo, la prospettiva non è più rigorosa, gli abiti, le vesti e i corpi che li indossano non rispettano le proporzioni, la sensazione prende il posto della "visualizzazione".

La croce, dalle fattezze “pesanti” è al centro della scena ma non ne è la protagonista, la sua grave presenza ad un tratto sembra svanire, i bracci stessi escono dalla tela.

Tre sono le scale utilizzate per schiodare Gesù, qui l’artista cogli l’attimo concitato dove, staccati i chiodi, ci si accinge a deporre il corpo morto.

La scena si divide in due, in alto la narrazione della deposizione, in basso lo sconforto e la tragedia vissuta da chi gli era più vicino.

Il personaggio più in alto, Nicodemo, si sporge con decisione e sembra avvertire gli altri che il modo in cui agiscono non è quello ideale, dall’espressione allarmata sembra chiedere cosa stiano combinando.

L’aiutante sotto Nicodemo si sobbarca tutto il peso e, facendo leva sulle gambe appoggiate sui pioli della scala riesce nel difficile intento, a sinistra Giuseppe D’Arimatea appare addirittura infuriato, in equilibrio precario allunga il braccio cercando di bloccare la caduta del Cristo, cosi facendo però con il ginocchio destro urta l’atro aiutante che sembra perdere l’equilibrio, con il serio rischio di finire addosso a quelli in basso. Da segnalare il giovane ragazzo, il cui compito è quello di reggere la scala, che si distrae incurante di ciò che succede sopra di lui.

Maria ai piedi della croce crolla dal dolore perdendo i sensi, è sorretta dalle due pie donne che le stanno accanto, Maria Maddalena invece si dispera gettandosi ai piedi della madre di Cristo anche lei privata delle forze dall’intensità del dolore.

Voltato dall’altra  parte troviamo San Giovanni Evangelista che in solitudine si abbandona alla disperazione. Alcune fonti critiche sostengono che Giovanni, rappresentato con un’insolita capigliatura rossa, sia un autoritratto dell’artista, infatti il pittore, che di nome fa proprio Giovanni, è chiamato “Rosso” proprio per il colore dei capelli.

Il paesaggio quasi assente, l’estrema vivacità cromatica, sono alcuni dei particolari che mostrano una visione che nessuno, fino ad allora aveva messo in scena, il colore stesso della carnagione del Cristo morto è una fuga dalla realtà, di allora, rimanendo ancorati ad un chiaro realismo.

lunedì 20 ottobre 2025

La censura nel terzo decennio del XXI secolo

Quale “disegno” si cela dietro l’ottusità censoria nella storia dell’umanità ed in particolare al giorno d’oggi dove, l’accesso ad ogni genere di immagini è disponibile praticamente a chiunque?

Gustave Courbet – Donna con calze bianche, 1864 – olio su tela cm 65 x 81 – Barnes Foundetion, Philadelphia


Mi è capitato, facendo una ricerca su Gustave Courbet, di trovarmi di fronte a riproduzioni fotografiche di opere a cui avevano apposto un bollino nero (o una sfocatura strategica) su alcune parti del corpo nudo femminile.

Nell’epoca della pornografia accessibile a tutti come è possibile che un nudo pittorico debba essere ancora censurato?

Ho provato ad entrare nella testa di questi soggetti (all’inizio è difficile in quanto la parete cranica è spessa, ma una volta entrati c’è tutto lo spazio che uno desidera) e prendere in considerazione le loro motivazioni, asseriscono che gli interventi censori sono indispensabili (sempre parole loro) per evitare traumi e shock a persone sensibili davanti a tali dipinti.

Ammesso e non concesso che questo nel 2025 abbia un senso, mi chiedo perché non vi è un intervento simile su altri quadri che mostrano scene probabilmente più crude, un esempio può essere il capolavoro di Michelangelo Merisi, al secolo Caravaggio, il suo “Giuditta e Oloferne” è sicuramente potente, la violenza emerge in tutta la sua forza (non entro nel merito delle opere prese in considerazione). Davanti a questo dipinto una persona “sensibile” non potrebbe subire il tanto decantato shock?

Caravaggio – Giuditta e Oloferne, 1599-1602 ca. – Olio su tela cm 145 x 195 – Palazzo Barberini, Roma

Evidentemente la teoria sostenuta dai sempre attenti e presenti censori fa acqua da tutte le parti, infatti dove c’è censura c’è un nudo da nascondere (non vanno dimenticati i solerti bacchettoni che, probabilmente a causa di frustrazioni personali, segnalano indignati ogni possibile nudità).

Paradossalmente questi comportamenti si sono intensificati negli ultimi decenni, trenta o quarant’anni fa la censura agiva con meno attenzione, oggi le maglie si sono strette, a dimostrare, se ce ne fosse ancora bisogno, di una regressione sociale e culturale senza freni.

venerdì 10 ottobre 2025

Ai posteri ...

Giorgio Gost, artista parmense celebre per le sue Capsule del tempo, ha “incapsulato” accendini, bottiglie di liquore, penne, bottiglie di vino, stemmi di case automobilistiche, generi alimentari confezionati, dichi in vinile, riproduzioni di opere d’arte moderna e contemporanea, fino ai Bossoli, di cui voglio parlare.

Giorgio Gost - Bossoli, 2019

Inseriti in scatole di plexiglass i vari oggetti, sono frutto di un’economia, quella del secondo novecento, che ha fatto del consumo di massa il suo vessillo.

L’opera Bossoli è del 2019, posteriore agli anni citati in precedenza e in leggero anticipo ad oggi dove i bossoli portano immediatamente alla cronaca di questi giorni.

IL titolo completo di queste opere  è Capsula del tempo per l’anno 6000, un tentativo di lasciare ai posteri degli oggetti di uso quotidiano, in memoria di un’umanità che di memoria non ne ha molta e che forse all’anno 6000 non ci arriverà neppure (ho la vaga sensazione che ce ne andremo molto prima).

Ma perché i bossoli, tracce di armi già utilizzate, specchio della folle miopia umana, colpiscono lo spettatore nonostante siano stati presenti quotidianamente da quando sono stati inventati?

La risposta è che non ci si abitua alla violenza, e questo è motivo di speranza, ma allora perché le cose continuano ad accadere?

L’arte (che al contrario di ciò che siamo abituati a credere non è solo bellezza) ha il potere di scuotere gli individui che ancora hanno voglia di essere scossi, persone che andando in profondità subiscono gli urti del male (rappresentato appunto dalle armi) ma non cedono al fascino che emana, pur sapendo che tutto ciò non è esclusiva dei nostri giorni ma è un’eredità lasciata dal passato e che, purtroppo, lasceremo al futuro.

Non so se la scatola del tempo servirà a spronare gli abitanti del tempo che verrà ad evolversi finalmente o se sarà solo un monito, come è già successo, che verrà bellamente ignorato.

martedì 30 settembre 2025

Nel silenzio gridano le nostre paure

Su Prime Video ho incontrato casualmente un film di cui nessuno, o quasi, parla, anche in rete, dove si vocifera di qualsiasi cosa, non ci sono molte informazioni.


Non aiuta nella ricerca il titolo: “The trail”, la penuria di fantasia ha optato per qualcosa di usato infinite altre volte.

Pellicola indipendente dal budget limitatissimo e dalla struttura narrativa tutt’altro che originale, ma cos è che mi spinge a recensirlo positivamente? Tutto il resto!

In un epoca di film dove emerge la fretta, il caos e lo sproloquio, dove un numero sempre maggiore di personaggi rende tutto caotico, a Stefan Müller, regista austriaco, è bastato eliminare il superfluo e puntare sull’essenziale per ottenere un risultato eccelso.

Sophia Grabner rappresenta il personaggio principale, ma non è solo la protagonista, è l’unico personaggio presente, al netto di poche comparse in scena per pochi minuti, inoltre è assente qualsiasi dialogo, questo rende il tutto profondamente intimo, un frastornate e silenzioso viaggio introspettivo.

Il film inizia in un ospedale dove una giovane donna è a letto in stato d’incoscienza e supportata da varie macchine tra le quali quella che eroga ossigeno, subito dopo appare una scritta: “Un anno dopo”.

Ora siamo in una stanza d’hotel, dove la donna si prepara per uscire, indossa scarponi da trekking, una giacca a vento e uno zaino, davanti allo specchio, prima di chiudere il colletto della giacca attorno al collo notiamo una cicatrice che corre da destra a sinistra sulla gola.

Esce dall’hotel e si dirige verso il bosco, ad un certo punto, mentre percorre un’ampia strada sterrata appare un segnale che indica “Start of trail”, il percorso ha inizio!


A fare da cornice lo spettacolo delle Alpi che accompagna il percorso della donna che al tramonto monta una piccola tenda e accende un fuoco, è proprio davanti alla legna ardente che estrae un taccuino e scrive il nome delle sue paure, che se superate, finiscono nel fuoco impresse nel foglio che viene strappato.

L'indomani incontra, o sarebbe più esatto dire osserva da lontano, alcune persone, senza che però ci sia alcuna interazione, la paura della gente è una presenza ingombrante che deve essere sconfitta.

Tutto scorre tranquillamente, tra il silenzio e i suoni della natura ed il paesaggio mozzafiato che mostra l’infinita bellezza delle montagne, la svolta avviene quando affacciatasi ad una radura trova, incagliata al terreno, un’astronave di provenienza aliena.


Titubante aggira il veicolo e nota un’apertura anomala, come se qualcuno si fosse fatto strada dopo aver divelto le pareti, poco lontano, tra gli alberi, ecco il visitatore straniero, gravemente ferito e riverso a terra, l’alieno porge la mano alla giovane donna che accetta il contatto, la stretta tra le due mani da vita ad un collegamento mentale, ne scaturisce una frase: “It esaped, on its skin” (la traduzione lascia alcune perplessità ma potremmo semplificare con “è scappato per un pelo” o “sulla sua pelle”, il che potrebbe avere un senso nel proseguo del film) le mani si dividono alla morte del visitatore e la giovane protagonista si ritrova nel palmo una piccola sfera.

Qui il fil lascia le atmosfere idilliache per tuffarsi in un vortice scuro e angosciante dove il passato  le paure prendono il sopravvento, non sto a raccontare ciò che succede in seguito, ma dal mio modesto punto di vista vale la pena approfondire, sempre che ci piacciano i silenzi e le discese negli abissi della mente.