giovedì 20 marzo 2025

Visioni soggettive

“L’universo in realtà è buio! Le stelle non brillano, non c’è alcuna luce, il sole non è luminoso, la luna non riflette i suoi raggi, tutto è nero. Perché?

Perché la luce esiste se ci sono degli occhi e un cervello capace di trasformare le onde elettromagnetiche in segnali luminosi, come fa appunto il cervello umano.

Le onde elettromagnetiche, di per sé, non generano luce, tutto è spaventosamente buio”.

(Piero Angela)

Vincenzo Galati – Città strana n.1 – Acrilico su tela di lino, cm 80 x 180 – Collezione privata

Il cosmo dunque si presenta, come lo vediamo, nella forma e nei colori che solo noi riusciamo a percepire, tutto questo vale naturalmente per ciò che osserviamo quotidianamente sul nostro piccolo pianeta, parte infinitesimale dell’universo.

Ma cosi come il sistema solare è una piccola tessera del mosaico universale, noi, in quanto esseri umani, presi singolarmente, siamo allo stesso modo una piccolissima parte dell’insieme dell’umanità.

In quanto soggetti unici e non replicabili abbiamo occhi e cervello che vedono in modo unico?

Lasciamo da parte la differenza tra specie animali, anche tra esseri umani ci sono delle piccole o grandi variazioni, nessuno probabilmente vede allo stesso identico modo di un’altra persona.

A questo punto viene da chiedersi quanto la visione differente influisca sulla percezione delle opere d’arte.

Naturalmente sono molti i fattori che ci portano ad apprezzare un dipinto, una scultura o una fotografia, l’aspetto puramente estetico, le conoscenze, il bagaglio culturale, la società in cui viviamo, i gusti personali, ecc.

Se a tutto ciò aggiungiamo una “visione”, e la conseguente elaborazioni di quello che riceviamo, diverse da chiunque altro, è possibile che influisca sulla differente valutazione rispetto ai giudizi altrui?

Sicuramente anche questa ipotesi va ad aggiungersi ai fattori soggettivi già menzionati, questo dovrebbe farci riflettere quando tendiamo ad emettere sentenze definitive, guardiamo e vediamo un’opera come nessun altro ha mai fatto, è solo uno degli infiniti angoli di osservazione, non ci resta che impegnarci cercando di capire quale sia la prospettiva da un altro angolo.

domenica 9 marzo 2025

Alla fine è sempre l'idea a prevalere.

“Sono stato in stretto contatto con artisti e con giocatori di scacchi e sono arrivato alla conclusione personale che mentre non tutti gli artisti sono giocatori, tutti i giocatori di scacchi sono artisti”. (M. Duchamp)

“La bellezza degli scacchi è più vicina a quella della poesia; i pezzi sono l’alfabeto stampato che dà una forma ai pensieri, e questi pensieri, pur formando un disegno visivo sulla scacchiera, esprimono una loro bellezza astrattamente, come una poesia”. (M. Duchamp)

Marcel Duchamp – Ritratto di giocatori di scacchi, 1911 – cm 108 x 101 - Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris

Marcel Duchamp ha sempre considerato il gioco degli scacchi, o perlomeno il senso dello stesso, una forma d’arte che fonde la profondità della poesia, della pittura e della scultura.

Gli scacchi come metafora dell’arte nella sua narrazione, i giocatori muovono i pezzi dando vita ad un “quadro”, sia dal punto di vista visivo sia da quello delle idee.

L'artista francese anticipa l’importanza del gesto del “dipingere”, che diverrà celebre qualche decennio più tardi, esaltando il “movimento” del pezzo sulla scacchiera, al punto da renderlo emozione, sensazione quasi fisica: ”piacere sensuale dell’esecuzione ideografica dell’immagine sulla scacchiera”.

A confermare tutto ciò c’è la dichiarazione dello stesso Duchamp che sottolinea come un pittore, se non è soddisfatto del suo dipinto, può cancellarlo e ricominciare da capo, cosi come un giocatore di scacchi può cancellare quello che si è fatto.

Il dipinto in alto rappresenta le due anime del pittore normanno, Ritratto di giocatori di scacchi è la sintesi del pensiero artistico del giovane Duchamp (allora vicino al cubismo prima di abbandonare il movimento e la pittura stessa per manifesta “ipocrisia”)

Qualche tempo fa ho parlato (qui) proprio della celebre immagine che vede Ducham davanti alla scacchiera pronto ad accettare la sfida di Eve Babiz in occasione dell’inaugurazione di una sua personale.

Se il “gioco” degli scacchi non è arte a prescindere, lo è nel momento in cui sulla scacchiera si “disegna” l’idea, d’altro canto se avviciniamo qualsiasi cosa al nome di Duchamp non può che essere cosi, l’idea rende uno scacchista un artista, non sempre un pittore lo è.  

venerdì 28 febbraio 2025

Liberiamoci dei nostri demoni (e paghiamone le conseguenze)

“Già da quando avevo 17 anni ero convinto che sarei diventato famoso. Pensavo a tutti i miei miti: Charlie Parker, Jimi Hendrix … Avevo una curiosità romantica di sapere come la gente ce l’aveva fatta.”

Jean Michel Basquiat

 

Jean Michel Basquiat – Autoritratto 1982 – Acrilico e pastello – Collezione privata


Ce l’ha fatta ha raggiungere il suo obbiettivo? La risposta non può che essere affermativa, il prezzo da pagare è stato alto, ne valeva la pena?

A questa seconda domanda può rispondere solo Basquiat, questo significa che la risposta non c’è.

Ma perché il pittore newyorkese è diventato uno dei simboli fondamentali dell’arte dell’ultimo mezzo secolo? Davanti alle sue opere spesso si pensa ad una deriva artistica contemporanea, ma di contemporaneo c’è ben poco, non certo per il concetto espresso ma dal tempo trascorso da allora.

Se un artista è riconosciuto come snodo basilare per un percorso culturale, dopo quasi cinquant’anni, come possiamo ignorarne il valore basandoci su ciò che ci limitiamo a vedere e, spesso, senza capirne il senso?

Jean Michel era figlio della cultura della discriminazione, è il simbolo di chi, con forza, determinazione e un poco di fortuna, può abbattere, o perlomeno aprire delle brecce, in quei muri sociali che l’umanità ha sempre costruito.

Ha pagato tutto ciò per un qualcosa che andava contro il sistema? Ha pagato per qualcosa che andava al di là delle proprie forze? Forse ne l’uno ne l’altro, semplicemente non aveva accanto qualcuno che lo riparasse dall’uragano emozionale che l’ha travolto.

Ma se avesse avuto vicino le persone giuste sarebbe stato in grado di riversare sulla tela tutti i suoi demoni?

Niente è per caso, a volte servono dei compromessi per sopravvivere, qualcuno li trova chiudendo i propri fantasmi in cassetti sigillati, altri aprono il vaso di Pandora lasciando fluire tutto ci che hanno dentro, ma questo presenta sempre il conto.

A noi il compito di fare in modo che tutto questo non vada perduto.


giovedì 20 febbraio 2025

L'arte è "negoziabile"? (Part. 3)

In una trasmissione televisiva, il cui scopo era quello di far luce sul lavoro delle gallerie d’arte e la crescente difficoltà che molte di loro hanno nel tenere aperti i battenti, sono incappato nell’ennesima stortura del mercato, o meglio, nell’errata direzione seguita da chi è parte del mercato dell'arte.

Immagine dal Web

Uno dei galleristi è ripreso mentre cerca di convincere l’acquirente di turno sulla bontà della merce in vendita.

Parlando di un’opera di Gerhard Richter ha sottolineato l’importanza di possedere un dipinto del pittore tedesco perché: “Richter è l’artista vivente con la più alta rivalutazione delle proprie opere”.

Questo mi ha portato indietro di qualche anno, ero entrato in una piccola galleria di un piccolo centro, non molto lontano da dove vivo, il proprietario, un ragazzotto stretto in un completo grigio, il cui scopo, non riuscito, era di farlo sembrare più professionale, non mi ha dato nemmeno il tempo di entrare che mi si è incollato addosso congratulandosi con me per essere arrivato nel momento giusto, avevo la fortuna e il privilegio di cogliere l’occasione della vita, acquistare un dipinto di un’artista, che non avevo mai sentito nominare (naturalmente la colpa è mia e comunque conoscere nuovi artisti è sempre una mia prerogativa) e che secondo lui (che ho scoperto in seguito essere figlio di un altro gallerista, il ché spiega molte cose) avrebbe moltiplicato il valore in un breve lasso di tempo.

In una galleria d’arte mi aspetto di poter dialogare e condividere nozioni sull’argomento artistico ma sono bastati alcuni accenni per capire che di arte il giovanotto non ne sapeva nulla, ho conosciuto gente non appassionata che ne sapeva di più.

I minuti trascorsi in quel luogo sono passati (lentamente) ascoltando teorie su quanto avessi guadagnato se compravo il tal quadro e l’avessi venduto da lì a un lustro, o quanto avrei potuto arricchirmi se portavo a casa altre opere rivendendole in seguito, tempo passato a parlare di acquisti, vendite, guadagni, investimenti ecc., nulla che riguardasse l’aspetto artistico, aspetto che al (poco o per niente) professionista era sconosciuto.

Qui torniamo all’individuo citato all’inizio, nelle gallerie il denaro è al centro della discussione, questo non ci scandalizza, anzi, lo scopo di questi negozi, perché una galleria d’arte altro non è che un negozio, è vendere, altrimenti sarebbero obbligati a chiudere, ma siccome l’arte è anche qualcosa che va oltre l’aspetto materiale, mi aspetto che se entro in un luogo dedicato ad essa emerga anche l’aspetto spirituale.

Molti sosterranno che il denaro è l’unica cosa che conta per il mercato, può darsi, non lamentiamoci però se, al netto dei super ricchi, si fatica a vendere a collezionisti dal livello (economico) più basso, e se, come lamentano in molti, la gente comune passando davanti ad una galleria si guarda bene dall’entrare, essere assaliti da venditori incompetenti non è il sogno di chi vuole acquistare emozioni.

lunedì 10 febbraio 2025

In alto, in attesa del tempo

Le scale mobili ci accompagnano al penultimo piano del Museo del 900 a Milano, salendo iniziamo immediatamente ad ammirare il soffitto che, a sua volta, fa da pavimento all’ultima sala.



L’opera che si erge a portale verso l’infinito è uno dei capolavori di Lucio Fontana, legato al concetto dei “buchi” e dei “tagli”, il Soffitto Spaziale sorregge la grande stanza dedicata allo stesso artista e al contempo apre un varco verso l’immaginazione.

L’impatto visivo del visitatore è di grande forza, il soffitto accompagna lo sguardo fino alla vetrata che da sul Duomo, avvicinandoci alla parete di vetro ci accorgiamo che il “tetto” spaziale lascia il posto ad una struttura luminosa, anch’essa realizzata da Fontana, un arabesco di luce che non è da meno a tutto il resto.

Come detto è l’anteprima alla stanza situata più in alto dedicata completamente al pittore nativo di Buenos Aires, sono infatti esposte alcune opere realizzate negli anni che vanno dal 1951 al 1962, quadri e sculture che hanno come comune denominatore l’attesa di una spazialità concettuale.

Il “Soffitto” è stato realizzato inizialmente per la sala da pranzo di un hotel sull’Isola d’Elba nel 1956, viene ricollocato nel museo milanese nel 2010.

venerdì 31 gennaio 2025

Il senso (filosofico) della vita


Immagina di incontrare te stesso, chi vedi?

Quanto lontano viaggeresti per ritrovare te stessa?

Vorresti poter cancellare il peggior giorno della tua vita?

La minaccia dall’esterno è più grande di quella dall’interno?

Se viaggi nel futuro puoi sfuggire al tuo passato?

Chi decide chi ha il diritto di stare al mondo?

Chi sei tu se non riesci a ricordare chi sei?


Questi sono gli incipit di altrettanti episodi di Solos (Assoli nella versione italiana) serie TV uscita nel 2021 e passata un po' in sordina.

Una serie TV che ha avuto prevalentemente recensioni negative, dove la critica maggiore fa riferimento alla noia e alla mancanza di azione.

Sette episodi, dalla durata che va da 20 a meno di 30 minuti, dove si cerca di dare una risposta alle domande che danno il via alle storie. Come tutte le “narrazioni” filosofiche incentrate sulle domande cardine della vita, qui vengono mostrate alcune delle infinite interpretazioni, la risposta definitiva, naturalmente, non è possibile da raggiungere.

Ogni episodio ha come titolo il nome del protagonista, tutti sono ambientati in un unico luogo, una stanza, il personaggio principale (l’unico per la verità, in quanto si tratta di monologhi, salvo alcune particolarità) si interfaccia con un’entità di cui si sente solamente la voce, ad eccezione appunto di qualche sporadica comparsa.

Ad unire gli episodi è l’aspetto più o meno fantascientifico, otto attori di grande livello (uno per ognuno dei primi sei episodi, mentre nel settimo si confrontano in due, unica eccezione.

Anthony Mackie è Tom, alla ricerca di contrastare l’ineluttabile, l’epilogo naturale della vita, la morte.



Helen Mirren è Peg, una settantenne che inizia un lungo viaggio alla ricerca della felicità, dove i rimpianti potrebbero essere obliati.



Costance Wu è Jenny, un tentativo disperato di cancellare i punti più bui della memoria.



Uzo Abuda è Sasha, il timore di ciò che sta al di fuori della nostra zona di conforto ci spinge verso qualcosa di più temibile?



Anne Hathaway è Leah, muoversi nello spazio e nel tempo per “aggiustare” la propria esistenza, ma qual è il costo da pagare?



Nicole Beharie è Nera, il diritto alla maternità e la responsabilità nel dare la vita e fronteggiarne le conseguenze.



Dan Stevens è Otto, Morgan Freeman è Stuart (il titolo è il nome di quest’ultimo) un confronto dove al centro si ergono i ricordi, perduti, rubati, custoditi e desiderati.



Come ho già sottolineato la serie non ha ricevuto molte lodi, anzi sono state le critiche ad avere il sopravvento, ed è proprio questo fattore che mi ha dato quella speranza di vedere finalmente qualcosa di buono.

Certo, non c’è azione, non ci sono morti ammazzati, niente sangue che scorre a fiumi o effetti speciali mozzafiato, c’è una storia dove l’aspetto filosofico della vita è al centro e vi è la recitazione, in questi frangenti gli attori sono messi alla prova, chi con ottimi risultati, chi con meno forza, sono riusciti nell’impresa di superare l’ostacolo.


martedì 21 gennaio 2025

Pittura e arte (quando l'una esclude l'altra)

“Schifano non era solo un ottimo pittore, era un artista”. Con queste parole Achille Bonito Oliva sottolinea un concetto che spesso sfugge a chi approccia l’arte, in particolare la pittura.

Mario Schifano – Paesaggio anemico, 1973-78 – Smalto su tela cm 97 x 77


Non voglio entrare nel merito dell’arte di Mario Schifano, almeno non in questa occasione, sottoscrivendo, per quanto mi riguarda, il pensiero del critico salernitano, voglio soffermarmi sul concetto che differenzia il pittore dall’artista, anche se in molti casi le due cose combaciano.

Quante volte viene attribuito lo status di artista ad una pittrice o pittore solo per il fatto di possedere una discreta tecnica? E quante volte gli stessi pittori e pittrici si autodefiniscono artisti per il medesimo motivo?

“Non sempre un pittore è anche un artista, mentre quasi sempre un artista è un pittore” (naturalmente rimanendo nell’ambito della pittura, cosa che vale anche per altre discipline, fotografia, scultura ecc.) questa frase, la cui attribuzione è incerta, fa il paio con le parole di Bonito Oliva, è arte se il pittore racconta qualcosa di interessante, di innovativo, di originale, altrimenti si tratta solo di ottima pittura.

Un'altra frase di questo tenore viene storicamente riportata ai primi del novecento e attribuita ad un membro, non esattamente identificato, delle cosiddette avanguardie storiche: "Alcuni pittori hanno deciso di abbandonare l'arte per continuare semplicemente a riprodurre la realtà". Concetto estremo ed evidentemente forzato ma che spiega in poche parole qual era l'idea rivoluzionaria di quel tempo. 

Davanti all’opera di Schifano, che propongo esclusivamente come compagna di viaggio in questo post, la reazione di molti va verso una direzione: “questa non è ne pittura ne tantomeno arte”, non essendoci alcuna certezza in questo mondo anche in questo caso non si può essere certi che la definizione sia errata. Ma perché Mario Schifano è considerato un grande artista?

Tralasciamo la stucchevole storia del mercato che indirizza da una parte o dall’altra, motivazione che non va totalmente ignorata ma che decade dopo mezzo secolo (il tempo non mente) ci dovremmo chiedere perché un dipinto come questo (non questo perché come già detto non è l’arte di Schifano al centro della scena) è a tutti gli effetti un’opera d’arte.

Lo è per il semplice motivo che ha qualcosa da dire, cosa ha da raccontare non ha importanza in questo momento, ha qualcosa da dire e questo basta.

Certo se ci limitiamo ad osservare il dipinto sperando che inizi a raccontare è naturale che non ci giunga alcunché, è nostro dovere, e piacere, iniziare un’indagine che non sappiamo quanto dura ne dove ci porterà ma sappiamo che ad un certo punto cominceremo a percepire i primi sussurri che con il tempo diventeranno vere e proprie narrazioni.

Ci piaceranno? non ci piaceranno? proviamoci e vediamo come va a finire.

lunedì 13 gennaio 2025

La dipartita dell'uomo, l'eternità dell'artista, Oliviero Toscani

C’è una sola cosa che non posso fare, una mia foto da morto.



Oggi, 13 gennaio 2025 non ci resta altro da fare che confermare ciò che disse anni fa Oliviero Toscani.

Era il suo mantra, con una macchina fotografica diceva di poter fare qualsiasi cosa tranne quella che oggi non gli è riuscita.

Persona discutibile, quantomeno negli atteggiamenti, presuntuoso, arrogante, a volte maleducato nei confronti di chi mette in discussione alcuni dei suoi lavori (anche se davanti a certe affermazioni restare nei confini dell’educazione non è facile) ma è l’artista che voglio ricordare, visionario, geniale, la sua fotografia era, ed è, arte anche quando si metteva al servizio della pubblicità.

Quasi 10 anni fa scrissi sul blog esprimendo il mio punto di vista riguardo la celebre e discussa campagna per Benetton, probabilmente il suo più alto punto mediatico, nonostante questo riuscì a coniugare la campagna pubblicitaria con l’arte della fotografia e la riflessione sul degrado della società del tempo.

Se qualcuno fosse interessato a quel post lo può trovare qui