lunedì 20 ottobre 2025

La censura nel terzo decennio del XXI secolo

Quale “disegno” si cela dietro l’ottusità censoria nella storia dell’umanità ed in particolare al giorno d’oggi dove, l’accesso ad ogni genere di immagini è disponibile praticamente a chiunque?

Gustave Courbet – Donna con calze bianche, 1864 – olio su tela cm 65 x 81 – Barnes Foundetion, Philadelphia


Mi è capitato, facendo una ricerca su Gustave Courbet, di trovarmi di fronte a riproduzioni fotografiche di opere a cui avevano apposto un bollino nero (o una sfocatura strategica) su alcune parti del corpo nudo femminile.

Nell’epoca della pornografia accessibile a tutti come è possibile che un nudo pittorico debba essere ancora censurato?

Ho provato ad entrare nella testa di questi soggetti (all’inizio è difficile in quanto la parete cranica è spessa, ma una volta entrati c’è tutto lo spazio che uno desidera) e prendere in considerazione le loro motivazioni, asseriscono che gli interventi censori sono indispensabili (sempre parole loro) per evitare traumi e shock a persone sensibili davanti a tali dipinti.

Ammesso e non concesso che questo nel 2025 abbia un senso, mi chiedo perché non vi è un intervento simile su altri quadri che mostrano scene probabilmente più crude, un esempio può essere il capolavoro di Michelangelo Merisi, al secolo Caravaggio, il suo “Giuditta e Oloferne” è sicuramente potente, la violenza emerge in tutta la sua forza (non entro nel merito delle opere prese in considerazione). Davanti a questo dipinto una persona “sensibile” non potrebbe subire il tanto decantato shock?

Caravaggio – Giuditta e Oloferne, 1599-1602 ca. – Olio su tela cm 145 x 195 – Palazzo Barberini, Roma

Evidentemente la teoria sostenuta dai sempre attenti e presenti censori fa acqua da tutte le parti, infatti dove c’è censura c’è un nudo da nascondere (non vanno dimenticati i solerti bacchettoni che, probabilmente a causa di frustrazioni personali, segnalano indignati ogni possibile nudità).

Paradossalmente questi comportamenti si sono intensificati negli ultimi decenni, trenta o quarant’anni fa la censura agiva con meno attenzione, oggi le maglie si sono strette, a dimostrare, se ce ne fosse ancora bisogno, di una regressione sociale e culturale senza freni.

venerdì 10 ottobre 2025

Ai posteri ...

Giorgio Gost, artista parmense celebre per le sue Capsule del tempo, ha “incapsulato” accendini, bottiglie di liquore, penne, bottiglie di vino, stemmi di case automobilistiche, generi alimentari confezionati, dichi in vinile, riproduzioni di opere d’arte moderna e contemporanea, fino ai Bossoli, di cui voglio parlare.

Giorgio Gost - Bossoli, 2019

Inseriti in scatole di plexiglass i vari oggetti, sono frutto di un’economia, quella del secondo novecento, che ha fatto del consumo di massa il suo vessillo.

L’opera Bossoli è del 2019, posteriore agli anni citati in precedenza e in leggero anticipo ad oggi dove i bossoli portano immediatamente alla cronaca di questi giorni.

IL titolo completo di queste opere  è Capsula del tempo per l’anno 6000, un tentativo di lasciare ai posteri degli oggetti di uso quotidiano, in memoria di un’umanità che di memoria non ne ha molta e che forse all’anno 6000 non ci arriverà neppure (ho la vaga sensazione che ce ne andremo molto prima).

Ma perché i bossoli, tracce di armi già utilizzate, specchio della folle miopia umana, colpiscono lo spettatore nonostante siano stati presenti quotidianamente da quando sono stati inventati?

La risposta è che non ci si abitua alla violenza, e questo è motivo di speranza, ma allora perché le cose continuano ad accadere?

L’arte (che al contrario di ciò che siamo abituati a credere non è solo bellezza) ha il potere di scuotere gli individui che ancora hanno voglia di essere scossi, persone che andando in profondità subiscono gli urti del male (rappresentato appunto dalle armi) ma non cedono al fascino che emana, pur sapendo che tutto ciò non è esclusiva dei nostri giorni ma è un’eredità lasciata dal passato e che, purtroppo, lasceremo al futuro.

Non so se la scatola del tempo servirà a spronare gli abitanti del tempo che verrà ad evolversi finalmente o se sarà solo un monito, come è già successo, che verrà bellamente ignorato.

martedì 30 settembre 2025

Nel silenzio gridano le nostre paure

Su Prime Video ho incontrato casualmente un film di cui nessuno, o quasi, parla, anche in rete, dove si vocifera di qualsiasi cosa, non ci sono molte informazioni.


Non aiuta nella ricerca il titolo: “The trail”, la penuria di fantasia ha optato per qualcosa di usato infinite altre volte.

Pellicola indipendente dal budget limitatissimo e dalla struttura narrativa tutt’altro che originale, ma cos è che mi spinge a recensirlo positivamente? Tutto il resto!

In un epoca di film dove emerge la fretta, il caos e lo sproloquio, dove un numero sempre maggiore di personaggi rende tutto caotico, a Stefan Müller, regista austriaco, è bastato eliminare il superfluo e puntare sull’essenziale per ottenere un risultato eccelso.

Sophia Grabner rappresenta il personaggio principale, ma non è solo la protagonista, è l’unico personaggio presente, al netto di poche comparse in scena per pochi minuti, inoltre è assente qualsiasi dialogo, questo rende il tutto profondamente intimo, un frastornate e silenzioso viaggio introspettivo.

Il film inizia in un ospedale dove una giovane donna è a letto in stato d’incoscienza e supportata da varie macchine tra le quali quella che eroga ossigeno, subito dopo appare una scritta: “Un anno dopo”.

Ora siamo in una stanza d’hotel, dove la donna si prepara per uscire, indossa scarponi da trekking, una giacca a vento e uno zaino, davanti allo specchio, prima di chiudere il colletto della giacca attorno al collo notiamo una cicatrice che corre da destra a sinistra sulla gola.

Esce dall’hotel e si dirige verso il bosco, ad un certo punto, mentre percorre un’ampia strada sterrata appare un segnale che indica “Start of trail”, il percorso ha inizio!


A fare da cornice lo spettacolo delle Alpi che accompagna il percorso della donna che al tramonto monta una piccola tenda e accende un fuoco, è proprio davanti alla legna ardente che estrae un taccuino e scrive il nome delle sue paure, che se superate, finiscono nel fuoco impresse nel foglio che viene strappato.

L'indomani incontra, o sarebbe più esatto dire osserva da lontano, alcune persone, senza che però ci sia alcuna interazione, la paura della gente è una presenza ingombrante che deve essere sconfitta.

Tutto scorre tranquillamente, tra il silenzio e i suoni della natura ed il paesaggio mozzafiato che mostra l’infinita bellezza delle montagne, la svolta avviene quando affacciatasi ad una radura trova, incagliata al terreno, un’astronave di provenienza aliena.


Titubante aggira il veicolo e nota un’apertura anomala, come se qualcuno si fosse fatto strada dopo aver divelto le pareti, poco lontano, tra gli alberi, ecco il visitatore straniero, gravemente ferito e riverso a terra, l’alieno porge la mano alla giovane donna che accetta il contatto, la stretta tra le due mani da vita ad un collegamento mentale, ne scaturisce una frase: “It esaped, on its skin” (la traduzione lascia alcune perplessità ma potremmo semplificare con “è scappato per un pelo” o “sulla sua pelle”, il che potrebbe avere un senso nel proseguo del film) le mani si dividono alla morte del visitatore e la giovane protagonista si ritrova nel palmo una piccola sfera.

Qui il fil lascia le atmosfere idilliache per tuffarsi in un vortice scuro e angosciante dove il passato  le paure prendono il sopravvento, non sto a raccontare ciò che succede in seguito, ma dal mio modesto punto di vista vale la pena approfondire, sempre che ci piacciano i silenzi e le discese negli abissi della mente.

 

sabato 20 settembre 2025

L’arte "amatoriale" e il contatto con il pubblico

A chi non è capitato, passeggiando su un lungomare, nel centro storico di una località di montagna, all’interno di un mercatino o in una piazza di qualsiasi città, di incontrare un’esposizione di dipinti?



Come vi comportate, e soprattutto, come venite approcciati dall’artista di turno?

Questa riflessione nasce dalle parole di uno scultore che ho conosciuto recentemente che all’esortazione di un amico comune: “perché non metti su una bancarella e vai sul lungolago a vendere le tue opere?”, ha risposto: “non ho intenzione di stare a guardare la gente che passa davanti alle mie sculture senza fermarsi anche solo a dare un’occhiata, ne tantomeno di continuare a fermare i passanti per incentivarli ad acquistare”.

Questo mi ha riportato alla mente le, perlopiù spiacevoli, esperienze che ho vissuto davanti alle suddette bancarelle.

Io amo cercare in questi “luoghi” qualcosa di interessante, di nuovo, di emozionante, ma ho smesso di fermarmi davanti ai dipinti (mi piace fermarmi per molto tempo cercando quel particolare che mi trasmetta emozioni) per la reazione del pittore/pittrice che non cercano un approccio artistico che porti ella naturale conclusione di una vendita (è l’obbiettivo di chi prende queste iniziative) ma andando al sodo spiegandoti che quel quadro costa tot e quell’altro è più economico.

Premetto che questo modo di fare mi infastidisce per qualsiasi merce, figuriamoci per opere di carattere artistico che hanno un significato ben più ampio di un pezzo di formaggio o di una maglietta.

L’ultima esperienza negativa l’ho avuta qualche mese fa a Firenze, nell’attesa di entrare agli Uffizi, mancava una mezzoretta, mi sono avvicinato ad un banchetto che esibiva disegni realizzati con la tecnica della sanguigna, i soggetti erano piuttosto banali, i soliti luoghi fiorentini, ma il tratto e l’effetto visivo erano parecchio interessanti, ho iniziato ad osservarli con attenzione e dopo un minuto ecco che arriva l’autore che senza salutare esclama: “ecco un altro che guarda ma non ha nessuna intenzione di comprare, me ne intendo io di arte e capisco chi ne sa e chi vuole far perdere tempo”.

Non ho reagito male, non era il caso di scendere al livello (male)educato del tizio che avevo di fronte, gli ho solo fatto alcune domande riguardo la tecnica utilizzata, il tipo di carta, se erano disegni dal vivo o in studio ripresi da immagini catturate in precedenza, a quel punto ha cambiato modo di porsi:”ma lei se ne intende”, dice cercando di riavvicinarsi, con un tiepido “buongiorno” me ne sono andato.

Questa è una situazione al limite ma troppe volte quando ci si avvicina a dipinti, spesso piuttosto scadenti (mia personale opinione) vengo avvicinato con il solito, e unico, argomento, i soldi.

Non dico che chi fa questo mestiere, o anche solo come hobby, non possa pensare al lato remunerativo anzi, penso che questo obbiettivo sia sacrosanto ma che l’approccio con chi dovrebbe acquistare un quadro o una scultura debba essere più artistico, a meno che si vendano dipinti esclusivamente decorativi dove l’aspetto materiale diviene predominante, in questo caso però l’arte non c’entra nulla.

So che il mio parere non vale più di niente ma sarebbe bello che chi vuole vendere il proprio lavoro lo faccia con la profondità e delicatezza che l’arte merita ed esige.

Magari mi sbaglio e gli altri avventori sono “catturabili” più facilmente con un approccio diretto (economicamente) d’altro canto sono loro i venditori …

mercoledì 10 settembre 2025

Quando i dettagli fanno la narrazione

Secondo molti esperti e critici questa è probabilmente la più bella scena all’aperto di Jan Steen, le sue vedute rurali prendono ispirazione da Adrian van Ostade, ispirazione dovuta alla visione delle opere di quest’ultimo più che da una frequentazione personale.

Jan Steen – Giocatori di birilli davanti a una locanda, 1663 ca. – cm 33,5 x 27 – National Gallery, Londra


Steen, noto per essere un ottimo ritrattista, non ha mai nascosto di preferire le scene di vita quotidiana partendo da paesaggi più ampi e “stringendo” fino a sottolineare il particolare.

Dai dettagli parte la narrazione dei suoi dipinti, sfumature più o meno evidenti che, in mancanza di informazioni, aiutano l’osservatore a comprendere ciò che voleva raccontare. 

In questo dipinto, Giocatori di birilli davanti a una locanda, possiamo dedurre il nome della locanda stessa rifacendoci alla figura che appare sul cartello a sinistra, si vede un cigno, il che ci spinge a pensare che sia quello il nome del locale, o quantomeno che ne riporti il senso.

Sotto l’insegna un gruppo di persone discorre tranquillamente sorseggiando qualcosa, il tavolino è semplicemente un barile, dei tre uomini è quello di spalle ad attirare l’attenzione, vestito elegantemente alla moda ci dice che siamo nella prima decade della seconda metà del seicento (alcuni storici confermano questa ipotesi che coincide con la data della realizzazione del quadro).

Accanto alle tre figure troviamo un altro gruppo di persone impegnate in una gara di birilli, la distanza tra chi “tira” e i birilli è sicuramente errata, una concessione al pittore che per motivi di spazio ha ridotto il campo da gioco, questo non toglie nulla all’istante che vede i tre uomini e il ragazzino concentrati sul gioco.

Anche la locanda, posizionata tra gli alberi, quasi nascosta dalle fronde, trasmette un senso di accoglienza, intimità e serenità.

Una scena di vita quotidiana di qualche secolo fa, ad emergere prepotentemente non è solo il racconto di un istante simile ad altri, a prendere il sopravvento è la poesia che in certi frangenti si palesa nella sua grandezza grazie alla pittura che si trasforma in arte.

venerdì 29 agosto 2025

Tributo a … al declino della musica

In questa estate, come di consueto, siamo stati travolti dalle numerose sagre e dalle immancabili manifestazioni musicali che allietano (???) le calde serate di una stagione climaticamente capricciosa.

Pablo Picasso – Il vecchio chitarrista cieco 1903 (part.)


“Festa della birra”, “Sagra della birra”, “Bier fest”, “Festival bier”, “Summer bier” ecc. (la fantasia non va particolarmente di moda in questi tempi e a queste latitudini.

Le serate in questione sono deliziate (dipende dai punti di vista) esclusivamente da: “Tributo a …”, metteteci voi chi più vi garba.

Tributo a Celentano, a Vasco, a Jovanotti, a De Andrè, agli Abba, ai Pooh, a Renato Zero, ad Alan Parson, ai Pink Floyd, alla Pausini, agli 883, ai Modà, a Zucchero fino al tributo a chiunque (un medley di brani popolari senza un minimo senso logico).

Il tutto eseguito, almeno nel 90% dei casi, in modo imbarazzante, per non dire peggio.

Ho preso spunto da ciò che succede dalle mie parti per sottolineare ciò che ormai accade ovunque, l’invasione delle “cover band”, il fatto che canzoni del passato non sono più “reperibili” nei concerti (alcuni artisti non sono più tra noi, altri non reggono l’esibizione live, altri ancora sono difficili da raggiungere) sembra non ci sia alcuna alternativa.

Perché succede tutto questo? Certo la musica contemporanea fa breccia nei più giovani ma non riesce ad emergere come fece negli anni 60/70 dove trovò terreno fertile per un’epocale rivoluzione.

Ma basta la considerazione che il panorama musicale odierno sia sterile per spingere tutti a seguire musicisti, più o meno bravi, che copiano il lavoro altrui? Avrebbe senso se nei musei venissero esposte delle copie di opere del passato?

Naturalmente no, ma allora perché la gente corre a vedere Tizio, Caio e Sempronio che copiano (spesso male) i grandi della musica di ieri?

Tra un tributo (che se anche fosse realizzato discretamente deve fare i conti con un’acustica orribile) raffazzonato e l’ascolto di un disco originale penso che non ci siano dubbi, ma la motivazione di chi ci va è legata all’ascolto in compagnia della musica che piace, ho visto alcune registrazioni di amici che vanno a questi concerti e devo dire che nella stragrande maggioranza dei casi sono terribili, la cosa peggiore è che spesso non se ne accorgono.

È sufficiente la motivazione legata alla compagnia o c’è qualcosa di più profondo in questa “moda”?

Il quesito andrebbe posto anche a chi sta dall’altra parte, si cantano le canzoni degli altri perché non si è capaci di farne di proprie o perché in quel caso nessuno andrebbe ad ascoltarli?

Il titolo del post è volutamente provocatorio ma temo che questo sia un sintomo tutt’altro che positivo, la musica che si è evoluta dagli anni cinquanta fino ai novanta del secolo scorso ha esaurito il suo percorso?

Paul McCarney disse che negli anni 60 era più facile scrivere cose nuove perché c’era un territorio vergine da conquistare, oggi è più complicato perché è arduo dare vita a qualcosa di nuovo, o forse (mia considerazione) non ci sono più la capacità, la perseveranza e il desiderio di farlo.

giovedì 14 agosto 2025

Riflessioni a caldo (al caldo di metà agosto)

“Ma come fa un appassionato d’arte come te a stare senza social”?



Questa domanda mi è stata fatta pochi giorni fa dialogando con una persona durante una piccola mostra locale, giustificando il quesito chiedendomi come fosse possibile informarsi senza Instagram e soci.

Chi mi segue, anche solo saltuariamente, sa già che oltre a YouTube non ho alcun account legato ad altri social (ho chiuso anni fa Facebook e non sono andato oltre).

Dalle conoscenze (artistiche) di questa persona deduco che informarsi sui social non sia esattamente la strada ideale, quantomeno appare doveroso ampliare le fonti di approvvigionamento.

Premesso che un appassionato d’arte debba studiare, approfondire, mettere costantemente in dubbio le proprie e altrui visioni (nel senso che non c’è mai nulla di certo) visitare mostre e musei, cosa fondamentale, leggere libri di ogni sorta e confrontarne i pensieri che emergono, parlare con chi l’arte la realizza (cosa molto più difficile in quanto molti artisti non sono raggiungibili e altri alzano un muro).

YouTube, come detto è l’unico social che utilizzo, propone lezioni e conferenze che altrimenti non vedremmo, ma ci propina anche pseudo esperti impegnati prevalentemente a fare classifiche sui dipinti più belli, quelli più costosi ecc. questo, da come mi raccontano, è ciò che succede anche altrove, video di pochi secondi, perché se superi il mezzo minuto ci si annoia e si “skippa” (sempre sul “tubo”, un commento ad un video sull'arte povera, diceva: “ma come si fa a seguirti se ci metti una vita ad dire qualcosa?” il video durava meno di tre minuti e riassumeva l'intero periodo dl movimento).

Forse sono io l’anomalia, al netto delle capacità divulgative, mi piacciono le lezioni “corpose”, dove ci prende il tempo necessario per spaziare in lungo e in largo, e in profondità.

La domanda ora la faccio io, i social sono veramente necessari per capire l’arte? Sono un aggiunta ad altre fonti o bastano per il fabbisogno?

C’è però un pensiero che mi assilla, non è che si preferiscono Facebook e affini ai libri, non perché sufficientemente esaustivi ma per il semplice motivo che quei pochi secondi ci bastano per sentirci, inconsciamente o meno, eruditi quanto basta?

Come dice il titolo del post, queste sono riflessioni a caldo e con il caldo la mente tende ad appannarsi, siate comprensivi.

Nel frattempo … buon Ferragosto (con o senza arte, con o senza social)

venerdì 8 agosto 2025

La dipartita dell’uomo, l’eternità dell’artista.

Un viaggio e un dono.

Gianni Berengo Gardin ci lascia.

Lascia questo monto imperfetto (il viaggio) ci lascia la perfezione dell’arte (il dono).



giovedì 31 luglio 2025

Siamo solo di passaggio

Non penso ci sia il bisogno di commentare le parole del testo del Brano di Franco Battiato Di Passaggio, pezzo che, inserito nell’album L’imboscata, vede la luce nell’ottobre del 1996.

Lascio a voi ogni considerazione sul testo e sulle musiche, quanto mai attuali.

Il dipinto che vi propongo è stato utilizzato per la copertina dell’album.

La battaglia delle Piramidi - Antoine-Jean Gros - La battaglia delle Piramidi, 1810 – Olio su tela cm 331 x 389 – Reggia di Versailles


Di passaggio

 

Passano gli anni
I treni, i topi per le fogne
I pezzi in radio
Le illusioni, le cicogne

Passa la gioventù
Non te ne fare un vanto
Lo sai che tutto cambia
Nulla si può fermare

Cambiano i regni
Le stagioni, i presidenti
Le religioni
Gli urlettini dei cantanti

E intanto passa ignaro
Il vero senso della vita
Si cambia amore, idea, umore
Per noi che siamo solo di passaggio

L'Informazione
Il coito, la locomozione
Diametrali delimitazioni
Settecentoventi case

Soffia la verità
Nel libro della formazione
Passano gli alimenti
Le voglie, i santi, i malcontenti

Non ci si può bagnare
Due volte nello stesso fiume
Né prevedere
I cambiamenti di costume

E intanto passa ignaro
Il vero senso della vita
Ci cambiano capelli, denti e seni
A noi che siamo solo di passaggio




domenica 20 luglio 2025

Il mito che oscura la realtà

Se chiedete cosa ha fatto Giotto da renderlo cosi famoso avrete, nella maggioranza dei casi, una risposta univoca, Giotto ha disegnato il cerchio perfetto!

Vasilij Kandinskij – Several circes, 1926 – Olio su tela 140,3 x 140,7 – Solomon Guggenheim, New York


Naturalmente un appassionato d’arte, per non scomodare chi l’arte la studia, virerebbe verso altre risposte, gli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova, quelli realizzati ad Assisi o i crocifissi lignei che possiamo ammirare a Firenze, Rimini o ancora a Padova, più in generale la rivoluzione del pensiero artistico a cui da vita.

Ma lo storitelling alla fine vince sempre, la leggenda del famigerato cerchio emerge inesorabilmente, se facciamo qualche ricerca sul web ecco fiorire una marea infinita di siti che raccontano la vicenda, a parte qualche caso isolato nessuno premette che si tratti di una narrazione senza fondamento (sia che l’autore ne sia al corrente o meno).

Tutto parte dalle parole di Giorgio Vasari che nel celebre “Le vite de’ più eccellenti pittori, scvltori e architettori”, narra la vicenda del giovane pittore toscano che si trovò si fronte a sua santità.

Vasari cita papa Benedetto IX, ma Teofilatto III non era contemporaneo di Giotto, questo spinge a pensare che si tratti di un errore di stampa o dello stesso Vasari che inverte le cifre, più vicino all’artista fiorentino è Benedetto XI. Ma anche qui qualcosa non quadra, nel periodo in cui è ambientata la “storia” sul soglio pontificio siede Bonifacio VIII, è dunque quest’ultimo che chiama Giotto al proprio cospetto.

Fare affidamento sulle parole di Vasari quando racconta gli artisti suoi contemporanei non è scontato, se poi le sue ricostruzioni vanno indietro nel tempo di qualche secolo …

Cosa successe, o si dice sia successo, lo sappiamo benissimo, alla richiesta di una dimostrazione di cosa sapesse fare con il pennello, Giotto dipinse un cerchio assolutamente perfetto.

Alcune versioni ci dicono che la cosa entusiasmò il pontefice al punto di rimanere senza parole davanti a tale perfezione, altre raccontano del papa contrariato da quello che definì un affronto.

Solo questo è sufficiente per mettere in crisi la veridicità del racconto, d’altro canto nessuno, tra quelli che hanno studiato a fondo la storia dell’arte (salvo le solite naturali eccezioni) ha mai preso sul serio questa vicenda.

Perché allora per molti non ci sono dubbi sulla veridicità del celebre “Cerchio”?

La tanto celebrata AI, alla domanda: “dove è custodito il Cerchio di Giotto” risponde indicando una località, anche se non la stessa, Roma, Padova, Parigi.

Chiudo con una considerazione, Vasari ha scritto ciò basandosi su pochi documenti e spesso difficili da decifrare, oggi abbiamo accesso ad infinite informazioni, in entrambi i casi giungiamo alla stessa (errata) conclusione, siamo certi che lo sviluppo tecnologico sia sufficiente per ampliare la nostra conoscenza è la capacità critica di valutarne le sfumature?




giovedì 10 luglio 2025

Chi, cosa e quando

 

Richard Oelze - L’attesa, 1935-36 - Olio su tela 81,6 cm x 106,6 cm - The Museum of Modern Art, New York

Un gruppo di persone ben vestite, sembrerebbe la rappresentazione della borghesia, rivolgono lo sguardo in una direzione, ad eccezione del secondo uomo da sinistra, che guarda dalla parte opposta, e la donna davanti a lui, che sembra persa nei suoi pensieri, tutti sono intenti ad osservare qualcosa che non riusciamo ad identificare.

Il dipinto, realizzato con le sfumature di un unico colore, trasmette un’atmosfera cupa, quasi asfissiante, in un prato dai confini indefiniti ma al contempo riconoscibili, queste persone volgono lo sguardo verso il cielo coperto di nuvole, l’aspetto cromatico ci condiziona tanto da pensare che non stanno guardando qualcosa ma stanno aspettando.

D’altro canto il titolo non lascia spazio ad equivoci, la scena rappresenta l’attesa, ma cosa stanno attendendo?

Oelze è tedesco e l’anno in cui viene realizzato il dipinto (1936) potrebbe farci pensare ad una popolazione in attesa di eventi di cui allora non si conoscevano gli sviluppi, ma l'arte va "vista" anche a posteriori, da qui possiamo giungere a scontate conclusioni.

Le influenze artistiche invece aprono a nuovi orizzonti, infatti, pur non avendo aderito ufficialmente al movimento surrealista, le frequentazioni con Ernst, Tzara, Dalì e Breton non possono non aver lasciato tracce.

Spinti alla curiosità dal titolo, vorremmo sapere chi o cosa stavano aspettando queste persone, nessuno ce lo dice, non resta altro da fare che dare vita a supposizioni, tenendo presente che a qualsiasi conclusione possiamo giungere è il nostro vissuto a tracciare la via, è difficile fare supposizioni liberi dalle nostre esperienze.

lunedì 30 giugno 2025

Oltre gli orizzonti conosciuti

Nel maggio scorso ha visto la luce un opera musicale che entra di diritto nel novero dei capolavori di arte contemporanea.

Copertina dell'album

Una decina di anni fa Michele Vallisneri, fisico italo americano, propone a Giovanni Amighetti, musicista emiliano, un progetto tanto folle e visionario quanto geniale.

Vallisneri è ordinario di fisica gravitazionale, la tesi del dottorato su "Modellazione e rilevazione di onde gravitazionali da oggetti stellari compatti" è realizzata sotto la supervisione di Kip Thorne (premio Nobel per la scoperta delle onde gravitazionali).

La proposta di Vallisneri è legata proprio alla visione contemporanea del cosmo, la ricerca di nuove forme nello spazio, una visione che va al di là delle semplici osservazioni avvenute fino a poco tempo fa, le onde gravitazionali, i buchi neri, l’attrazione delle stelle verso i pianeti che le accompagnano.

I pianeti del nostro sistema ma soprattutto quelli che si muovono attorno ad altri “soli”, i cosiddetti esopianeti, la ricerca si basa sul “Paradosso di Fermi”, che da il titolo al lavoro che sta per nascere.

Se esistono miliardi di stelle e queste hanno quasi sicuramente almeno un pianeta che "vive" nella loro orbita, quanti pianeti esistono nell’universo? Miliardi di miliardi, è la risposta, e se anche una minuscola percentuale di questi pianeti fosse simile alla terra (se non altro per la composizione che ipotizzerebbe una, anche se elementare, forma di vita, quante possibilità ci sono che esistano altre forma di vita?

Risposta: Molte! ma allora perché finora non abbiamo incontrato nessuno?

Il sogno dei viaggi interstellari, la fluttuazione attraverso i “corpi” che costituiscono l’universo, siano essi conosciuti o in attesa di essere scoperti.

Ad Amighetti si unisce David Rhodes, grande musicista noto per essere, da quasi mezzo secolo, il chitarrista di Peter Gabriel, per aver collaborato con Franco Battiato e Kate Bush, autore di colonne sonore (chi non ricorda La gabbianella e il gatto?) Il gruppo si completa con il collettivo “E-Wired Empaty”.

Il risultato è “The Fermi Paradox”, un concept album composto da nove brani dove l’ascoltatore viaggia nello spazio a bordo della musica.

Destino, Mare di stelle, Atmosfera positiva, Cintura di asteroidi (brano che propongo) sono alcuni dei titolo dei brani presenti nell’album.

Musicalità complesse, suoni lontani dalla musica commerciale, un’esperienza unica per chi desidera viaggiare oltre la propria zona di conforto.

Dieci anni per dare vita ad un lavoro complicato, Rhodes (chitarra elettrica e voce) Amighetti (Sintetizzatori) Roger Ludvigsen (chitarre) e Paolo Vinaccia alla batteria (scomparso nel 2019) fanno parte del nucleo iniziale, a cui si sono aggiunti negli anni Roberto Gualdi alla batteria, Sidiki Camara alle percussioni, Jeff Collins al sax, Faris Amine voce e chitarra, Moreno Conficconi al clarinetto, Valerio Combass e Pier Bernardi al basso.

A seguire propongo proprio “Asteroid Belt”, brano che forse più degli altri mi permette un’immersione multisensoriale nel profondo dello spazio infinito. Sulle varie piattaforme musicali si possono tranquillamente trovare gli altri pezzi di questo impegnativo ma fantastico capolavoro.


venerdì 20 giugno 2025

Per soldi e per amore (dell'arte)

Il precedente post, dedicato all’istallazione di Maurizio Cattelan a Bergamo, mi ha dato uno spunto di riflessione (suggerimento offertomi dagli amici Franco Alberto e Pia, che grazie anche ad alcune divergenze di vedute sono fonte di idee interessanti) ha messo in luce la percezione della gente riguardo alle opere d’arte contemporanee.

Tiziano Vecellio – Amor sacro e amor profano, 1515 – Olio su tela cm 118 x 278 – Galleria Borghese, Roma


Di fronte ad un dipinto, ad una scultura o ad altre espressioni artistiche che non siano pittura figurativa, spesso la reazione porta alla conclusione che il fine ultimo sia quello che porta al guadagno e/o alla fama, insomma se qualcuno realizza un’opera poco comprensibile nell’immediato lo fa per soldi o per farsi notare.

Non è mia intenzione negare questa possibilità anzi, posso anche condividerla ma c’è differenza tra le opere contemporanee e quelle del passato?

Grandi artisti come Tiziano non lavoravano certo gratuitamente, si facevano pagare profumatamente tanto che non tutte le persone, anche benestanti, potevano permettersi i loro dipinti.

Cosa dire del tanto celebrato, anche da chi non ha il minimo interesse per l’arte, Michelangelo Buonarroti che, chiamato da Papa Giulio II per affrescare la volta della Cappella Sistina, si lasciò convincere solo dopo l’offerta di un lauto compenso, infatti inizialmente aveva rifiutato la commissione in quanto: “sono uno scultore, non sono un pittore”.

Mentre riguardo a Tiziano e Michelangelo a nessuno viene in mente che abbiano realizzato i loro capolavori per fama o denaro, succede esattamente il contrario se i dipinti o le istallazioni sono realizzate da artisti del nostro tempo.

Siamo tutti affascinati dall’idea che il nostro lavoro venga apprezzato da più gente possibile, l’ego umano è smisurato, cosi come tutti cerchiamo di monetizzare il nostro lavoro, ma questo non impedisce che dietro gli sforzi ci sia qualcosa in più.

L’arte andrebbe “vista” con lo sguardo più ampio possibile, tralasciando quei retro pensieri che oggi vanno tanto di moda, vedere di ogni cosa solo il lato oscuro, considerandolo il solo lato possibile.

Gli artisti da sempre hanno legato le loro opere al profitto ma un appassionato deve andare oltre, a me non interessa se Picasso ha guadagnato un sacco di soldi vendendo i suoi quadri, ne tantomeno se i dipinti di Cezanne vengono battuti all’asta per milioni di euro, sono più attratto dai concetti che questi pittori hanno espresso, sono interessato dalle dinamiche emerse dalle loro opere, dinamiche che hanno influenzato l’arte a venire, ma non solo l’aspetto artistico, anche, e soprattutto, quello sociale e culturale.

Il presente è e sarà sempre figlio del passato e genesi del futuro.

domenica 8 giugno 2025

Abbandoniamo la superficie per comprendere le profondità

All’alba del 6 giugno, al centro della Rotonda dei Mille che ospita il monumento di Giuseppe Garibaldi a Bergamo, gli abitanti della città lombarda hanno avuto una sorpresa (piacevole o meno dipende dai punti di vista).



Sulle spalle della statua del “Re dei due mondi” appare un bambino che con la mano destra mima una pistola, dopo i primi attimi di smarrimento ecco svelato l’arcano: si tratta di un’installazione di Maurizio Cattelan.

Come ogni opera realizzata dall’artista padovano anche questa suscita immediatamente reazioni differenti, anche se soprattutto negative, alla mente tornano i bambini impiccati apparsi a Milano nel 2004 (ne ho parlato qui)

L’installazione inaugura la mostra diffusa “Season” che dal 7 giugno al 26 ottobre sarà visibile nella città “Dei Mille”.

Cos’è che scatena il fastidio di molti? Un bambino che “spara”? Il gesto dissacratorio che tocca uno dei simboli cittadini? O lo sdegno per qualsiasi cosa non sia comprensibile nell’immediato?

Non sarò certo io a scandalizzarmi per un’opera d’arte anzi, sono proprio queste occasioni, dove al primo sguardo non si hanno le giuste coordinate, in cui possiamo iniziare ad esplorare gli anfratti di una visione, nostra e altrui, che rimangono in ombra.

Chi o cosa rappresenta il bambino “armato” a cavalcioni sul monumento di una figura simbolo della città ma non solo? La difesa o l’aggressione delle nuove generazioni a tutto ciò che è il passato, oppure il bambino che impugna un’arma, anche solo metaforica, ci riporta ai tristi fatti di cronaca che denunciano un degrado morale in cui sono proprio i bambini a farne le spese (qui l’accostamento all’opera di Milano pare evidente).

Naturalmente non possiamo escludere l’aspetto giocoso ma sembra più legato alle generazioni passate, semmai è il tentativo di emergere, con la forza, in un mondo che non sembra conoscere alternative alla forza stessa.

Dietro alle opere di Cattelan c’è sempre un messaggio anche se fatica ad emergere, la totale assenza di riferimenti da parte dell’autore ingarbuglia ulteriormente i tentativi di darne una definizione logica, in fondo Cattelan ha sempre fatto della provocazione un suo cavallo di battaglia, ma solo se ci si ferma alla superficie non si vede altro. Dai “bambini” già citati al dito medio in Piazza Affari, dal papa colpito da un meteorite fino alla celeberrima “banana” (curioso che le opere siano conosciute con nomi differenti dal titolo scelto dall’artista) apparentemente sembra che l’unico obbiettivo sia provocare ma in ogni singolo caso dietro c’è un preciso percorso, artistico, sociale e culturale.

Come richiesto a qualsiasi un’opera d’arte anche questa fa discutere, se riuscisse anche a far riflettere …

venerdì 30 maggio 2025

... è la gente che se ne frega.

Come due rotaie, legate dalle traversine, questa canzone è a tutti gli effetti un “binario” narrativo.

Foto dal web

Venezia, resa celebre dalla versione di Francesco Guccini, debutta nel 1979 all’interno dell’album Il sogno di alice del gruppo genovese Assemblea musicale teatrale di cui fa parte Gian Piero Alloisio, autore del brano.

Il gruppo collabora da qualche anno con Francesco Guccini che inserirà la sua versione, leggermente modificata, nel 1981 nell’album Metropolis.

Come dicevamo il testo viaggia su due linee parallele, la tragica storia di Stefania che a soli vent’anni muore di parto in un “grande ospedale” (Alloisio scrive la canzone dopo la morte di una giovane cugina deceduta proprio mentre stava partorendo) si affianca alla decadenza della città lagunare, entrambe le cose seguono la strada dettata da un destino apparentemente segnato, l’indifferenza della gente.

Indifferenza di un ospedale che tratta i pazienti come una “cosa” che va e che viene, merce non persone, indifferenza di chi abbandona a sé stessa la giovane donna che muore “da sola” lontana da chi avrebbe dovuto sostenerla.

Ma l’indifferenza è protagonista anche nella decadenza di Venezia, trasformata in un oggetto di consumo, dove tutto è superficiale, da utilizzare e poi buttare quando non ci diverte più “Venezia è un albergo, San Marco è anche il nome di una pizzeria, la gondola costa, la gondola è solo un bel giro di giostra …”.

Il brano non lascia spazio alla minima dose di speranza, è una constatazione di un dato di fatto, la mercificazione culturale, dei sentimenti e delle emozioni, tutto ha un prezzo, chi può permetterselo ne fa uso e poi getta tutto, magari nemmeno differenziando e perché no, scaricando l’umanità nelle acque della laguna.

A seguire il testo della versione di Guccini e le due interpretazioni


Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare
La dolce ossessione degli ultimi suoi giorni tristi, Venezia, la vende ai turisti
Che cercano in mezzo alla gente l'Europa o l'Oriente,
Che guardano alzarsi alla sera il fumo, o la rabbia, di Porto Marghera

Stefania era bella, Stefania non stava mai male
È morta di parto gridando in un letto sudato d'un grande ospedale
Aveva vent'anni, un marito, e l'anello nel dito
Mi han detto confusi i parenti che quasi il respiro inciampava nei denti

Venezia è un albergo, San Marco è senz'altro anche il nome di una pizzeria
La gondola costa, la gondola è solo un bel giro di giostra
Stefania d'estate giocava con me nelle vuote domeniche d'ozio
Mia madre parlava, sua madre vendeva Venezia in negozio

Venezia è anche un sogno, di quelli che puoi comperare
Però non ti puoi risvegliare con l'acqua alla gola, e un dolore a livello del mare
Il Doge ha cambiato di casa e per mille finestre
C'è solo il vagito di un bimbo che è nato, c'è solo la sirena di Mestre

Stefania affondando, Stefania ha lasciato qualcosa
Novella Duemila e una rosa sul suo comodino, Stefania ha lasciato un bambino
Non so se ai parenti gli ha fatto davvero del male
Vederla morire ammazzata, morire da sola, in un grande ospedale

Venezia è un imbroglio che riempie la testa soltanto di fatalità
Del resto del mondo non sai più una sega, Venezia è la gente che se ne frega
Stefania è un bambino, comprare o smerciare Venezia sarà il suo destino
Può darsi che un giorno saremo contenti di esserne solo lontani parenti.