Non
vuole essere un accostamento dei soggetti (il che potrebbe apparire offensivo)
ma una constatazione che può sembrare artisticamente blasfema ma che va ben
oltre l'ipotetica provocazione.
Giotto
e Duchamp sono i veri e unici "creatori" di un pensiero artistico
rivoluzionario, l'arte dopo Giotto ha preso una strada assolutamente nuova, un
modo di vedere e vivere e pensare fino ad allora inimmaginabile.
La stessa cosa succede
nella seconda decade del novecento, Duchamp da vita ad un'idea dell'arte che
ribalta i canoni e indirizza la società verso un futuro sconosciuto.
Il mondo, come lo
conosciamo, è figlio delle idee "duchampiane" che a sua volta si
ribella a quelle "giottesche", che pure ne hanno influenzato il
pensiero.
Da Giotto al pre Duchamp si
sono alternate infinite realtà rivoluzionarie ma solo con l'avvento del
discusso autore dei "ready-made" la svolta diviene definitiva.
So che ai più questa
"visione" può sembrare assurda (e forse lo è) ma è innegabile che tra
i tanti "prima e dopo" questi due segnano un cambiamento mai visto in
altre occasioni.
Un’opera
definita epocale, viene considerata la prima opera d’arte femminista, il titolo
è “The Dinner Party”, l’autrice è Judy Chicago, è esposta permanentemente al
Brooklyn Museum di New York.
L’installazione
è composta da tre tavoli disposti a formare un triangolo, ogni tavolo è
apparecchiato per tredici persone (in riferimento all’ultima cena dove Gesù
sedeva circondato dai dodici apostoli).
Ogni
posto è assegnato ad una donna che, secondo la Chicago, ha scritto “pagine”
indelebili nella storia, donne che sono cadute quasi sempre nel dimenticatoio, ad
ogni posto troviamo un telo ricamato con il nome della donna accompagnato da
simboli che la ricordano, oltre alle posate e a un calice vediamo un piatto
di ceramica dalle diverse raffigurazioni, alcune legate al vissuto delle donne stesse altre raffigurano farfalle e fiori, questi ultimi sono spesso un evidente riferimento alla
sessualità femminile.
La
struttura poggia su una base costituita da centinaia di piastrelle dove sono
scritti i nomi di altre 999 donne dal vissuto altrettanto fondamentale e che sono
correlate alle 39 commensali.
I tre
tavoli comprendono ognuno un differente periodo storico, il primo tavolo va “Dalla
preistoria all’impero Romano” e ospita nomi come La dea della fertilità, Giuditta,
Saffo e Ipazia, il secondo “Dagli inizi del cristianesimo alla Riforma” tra i
nomi troviamo Santa Brigida, Isabella d’Este e Artemisia Gentileschi, il terzo
tavolo “Dalla Rivoluzione americana al femminismo” ospita figure come Sojourner
Truth, Emily Dickinson, Virginia Woolf e Georgia O’Keeffe.
Realizzata
tra il 1974 e il 1979 quest’opera com'era naturale, ha fatto molto discutere. Se possiamo
metterne in discussione il lato puramente estetico è più difficile ignorare ciò
che ha dato vita all’idea, riportare alla luce la figura femminile
volontariamente ignorata dalla storia.
Quando
si cerca di rappresentare qualcosa di universalmente “elevato” succede che ci
si dimentichi di qualcuno, la Chicago ha premesso di essersi concentrata sulle donne della cultura occidentale, questo fa da scudo alle
critiche di chi chiede il perché dell’assenza quasi totale delle donne non
bianche e non europee.
Altre
discussioni sono nate naturalmente per i piatti in porcellana che alluderebbero, nemmeno troppo velatamente, al sesso femminile, il contesto storico deve però
essere sottolineato, siamo nel periodo del movimento femminista che negli anni
settanta ha messo al centro il corpo femminile e la sua sacralità.
Dopo
quarant’anni vediamo l’insieme con un occhio diverso da quello di allora,
siamo ormai abituati alle installazioni, ad una forma d'arte che in quel periodo era solo agli inizi, cosi come siamo abituati al concetto di corpo femminile anche
se sembra che in quest’ultimo caso la visione appaia spesso distorta.
L’idea
di base di Judy Chicago è oggi attualissima, lo sguardo verso un futuro più “rosa”
era ed è rimasto prerogativa di pochi, c’è sempre tempo per imparare a guardare
avanti, ma per farlo dobbiamo volerlo.
Autore:Pietro Perugino (Pietro di Cristoforo
Vannucchi)
(Città della Pieve, 1448
ca. – Fontignano, 1523)
Titolo
dell’opera: Santa Maria Maddalena– 1500 ca.
Tecnica: Olio su tavola
Dimensioni:
47,2 cm x 34,3 cm
Ubicazione attuale: Galleria Palatina, Palazzo Pitti, Firenze
L’iscrizione sul
bordo della veste elimina qualsiasi dubbio sull’identificazione del soggetto,
curiosamente sono assenti tutti i simboli che riconducono a questo personaggio,
il teschio, l’urna contenente olio aromatico o gli atteggiamenti che la
raffigurano nell’atto di pentirsi o in estasi. Anche i capelli rossi, che
individuano la Maddalena in molti dipinti, non sono rappresentati.
Attribuita prima a
Leonardo, in seguito a Raffaello fino al definitivo riconoscimento della
paternità a Perugino, questa tavola riassume i canoni ritrattistici del tempo.
La modella che da
vita alla Santa è Chiara Fancelli, moglie del Perugino, che spesso ha posato
anche per Raffaello, se aggiungiamo che il pittore di Urbino è stato allievo
dello stesso Perugino comprendiamo le difficoltà nell’attribuzione.
La bellezza del
soggetto, la perfezione tecnica e fisiognomica sono tipiche dello “stile” del
Perugino, cosi come la forma delle labbra, la testa leggermente inclinata e lo
sguardo che si perde al di fuori del dipinto, tutto è costruito per proiettare
l’insieme fuori dal tempo.
Lo sfondo scuro
risalta ulteriormente la luce che illumina il perfetto ovale del viso e del
collo, il risultato è decisamente eccelso, l’irreale e il reale si fondono
trasmettendo una sensazione di profondo misticismo.
Oltre al viso e al
collo la luce si posa sulle mani, una descrizione accurata, riprodotte con
estrema precisione fino alle unghie lucide che riflettono la “psicologia” del
personaggio, cosa rimasta celata nell’espressione estatica del volto.
Eike
Schmidt, direttore degli Uffizi a Firenze, fa un appello che ha una base logica
e apre un interessante dibattito: restituire alle chiese, per cui furono
realizzati, i numerosi dipinti finiti nelle sale dei musei di tutta Italia.
Per il
direttore è giunto il momento di rimettere al loro posto pale d’altare, tavole
e dipinti che trovano il loro compimento nelle sedi originarie.
Schmidt fa
riferimento in particolare alla nota “Pala Rucellai”, opera di Duccio di
Buoninsegna, che venne portata via dalla Basilica di Santa Novella nel 1948, da
allora è esposta nel principale museo fiorentino senza però che l’opera sia
entrata legalmente a far parte della proprietà del museo stesso.
Naturalmente
non ci si riferisce alle opere che sono state regolarmente acquistate ma di
quei dipinti che furono prestati dalle chiese e cappelle per esposizioni
temporanee ma che non vennero mai restituiti.
Un dipinto
realizzato per un preciso luogo solo in quel contesto riesce a trasmettere
tutta la propria essenza, lo spazio, materiale e spirituale è unico, l’opera portata in un altro luogo, anche se valorizzata, perde il significato
originale.
E’ chiaro
che per mettere in atto questa epocale (e complicata) proposta servono le
giuste misure di sicurezza e conservazione, ma l’importante è che si cominci a
parlarne, immagino le difficoltà nell’attuazione di tutto questo (il sistema
museale è abbastanza potente da impedirlo) ma il fatto che qualcuno cominci a parlarne è di estrema importanza.
Nell'immagine: Duccio di
Buoninsegna – Madonna Rucellai (Madonna dei Laudesi) 1285 (data della
commissione) oro e tempera su tavola