A Barcellona, sulla “Facciata della Passione” del
Tempio Espiatorio della Sacra Famiglia, universalmente conosciuto come Sagrada Familia, possiamo ammirare il
favoloso Ciclo della Passione
realizzato dallo scultore catalano Josep Maria Subirachs.
La serie di sculture inizia nel 1987 e si conclude nel
2009, l’incontro tra Gesù e gli apostoli che da il via alla Passione è la prima
opera del ciclo stesso.
Sull’ultima cena l’arte si è esibita praticamente da
sempre, le tredici figure sono rappresentate in modi e contesti differenti,
alcuni dipinti, alcune sculture, sono diventati iconici, parte della storia
stessa dell’arte.
Lo schema di quest’opera riesce ad essere differente,
anche se non unico, Gesù, normalmente è inserito al centro con gli apostoli di
fianco, se questi ultimi non sono allineati con il Cristo sono rappresentati di
spalle, il Figlio di Dio è sempre di
fronte all’osservatore.
In questo caso da le spalle alla gente e si rivolge
esclusivamente ai propri amici (che poi altro non sono che un sunto dell’umanità
intera) in particolare posa lo sguardo su Giuda, quello che più di altri
rappresenta l’uomo nella sua “povertà”, infatti la targa, in catalano, riporta
le parole che Gesù rivolge a Giuda: “ quello che devi fare fallo al più presto”
(in catalano: “più in fretta”).
Non intendo approfondire l’Ultima cena in quanto tale, vorrei solo lasciarvi alle suggestioni
che quest’opera ci regala, l’ennesima visione che lascia da parte i canoni
regalandoci un altro punto di vista.
In
una trasmissione televisiva (ebbene si, ci sono ancora programmi di alto
livello) è stato formulato un interessante quesito: “ la matematica è
un’invenzione dell’uomo o una scoperta in quanto già esistente?”.
Jacopo de Barbari (attribuito) – Ritratto di Luca
Pacioli, 1495 ca. – Olio su tavola cm 99 x 120 - Museo Nazionale di
Capodimonte, Napoli
Durante la trasmissione sono comparsi altri “particolari” che hanno indirizzato le ipotesi
verso quella che potrebbe essere la strada giusta, la matematica è il
linguaggio che permette all’umanità di comprendere sé stessa e ciò che la
circonda.
Questo
non risponderebbe alla prima domanda ma darebbe vita ad altri interrogativi, se
la terza ipotesi è la più verosimile le prime due passano in secondo piano
(momentaneamente).
Dall’infinitamente
piccolo all’infinitamente grande, dalle cellule alle galassie, ogni cosa viene
compresa grazie alla matematica.
Considerato
il livello di conoscenza della matematica stessa dell’uomo medio chi è
veramente in grado di “conoscere sé stesso”? Perché senza la conoscenza
di sé è impossibile comprendere “l’altro”.
Ma
“l’altro” non sono solo le persone che incontriamo, “l’altro” è tutto ciò che
ci circonda.
La
matematica ci permette di “misurare” la materia di cui è composto il nostro
mondo, è in grado di misurare le emozioni, le sensazioni positive e quelle
negative?
La
matematica ci può aiutare a comprendere la musica, la poesia, la pittura
e qualsivoglia proiezione dell’essenza dell’uomo?
Siamo
i figli della matematica o ne siamo la genesi?
Qualche giorno fa, parlando con l’unica persona che mi
sopporta, cioè me stesso (anche se spesso non ci rivolgiamo la parola) mi sono posto
una domanda: cos’è o come possiamo definire il contrario di arte?
Foto di Edward Steichen – Auguste Rodin osserva il “Pensatore”
Ogni dizionario dei sinonimi e dei contrari ne dà una
definizione diversa, cartacei o elettronici hanno visioni simili ma espresse in
maniera leggermente differente.
Ad esempio lo Zingarelli “vede” il contrario di arte
partendo dal presupposto che arte sia un sinonimo di artificioso (cosa
effettivamente vera ma che esula dalla considerazione artistica come
espressione spirituale).
La Treccani online parla anch’essa di arte come:
“artificio, bravura, talento” ma alla voce contrari ecco che appare.
“incapacità, inettitudine”.
Ma come potevo accontentarmi di tutto questo che, pur
riconoscendo il valore, non da una risposta? L’arte è qualcosa di più alto, di
più profondo, è difficile, se non impossibile, darne una definizione,
figuriamoci per il contrario.
L’altra sera però la risposta è arrivata, un giovane
amico, calciatore dilettante mi invita a vederlo giocare, lui milita in una
squadra di un comune più lontano e la sfida era con la compagine di un altro
centro poco distante da dove risiedo e che ospitava l’incontro, “quando vengo a giocare vicino a casa tua
vieni a vedermi?”. Cosi è stato.
Mi piace il calcio ma non gradisco l’ambiente che sta
attorno ai capetti dilettantistici (non che a livello professionistico le cose
siano migliori anzi) dunque mi preparo al peggio.
Nonostante fossi partito prevenuto, che mi aspettassi una
cornice fatta di squallore e becerume, le persone assiepate sugli spalti sono riuscite a sorprendermi, erano presenti individui dall’età più disparata, si partiva
dai quindicenni fino ai settantenni, maschi e femmine (anche se i primi si facevano notare maggiormente) che per tutto il tempo
della partita si sono esibiti in ululati, insulti, bestemmie e ogni genere di
abominio linguistico. Con tutta onestà va riconosciuto che c’era anche qualche
essere civile, categoria che, come spesso accade, se ne sta in silenzio.
In quelle due ore ho realizzato che il contrario di
arte era proprio quello in cui ero immerso, maleducazione, incapacità di vedere
con obbiettività, mancanza di rispetto per il pensiero altrui, linguaggio,
moralmente e grammaticalmente indecente. Se l’arte è bellezza, idee, poesia e
introspezione, il suo contrario non può non essere quello che ho visto quella
sera.
La risposta certa al quesito che io e me stesso ci
siamo posti non esiste, ma una parziale forse si: il contrario di arte si potrebbe riassumere in una tribuna di un campo di calcio.
«L’architettura
non è un’arte, poiché qualsiasi cosa serva ad uno scopo va esclusa dalla sfera
dell’arte»
Adolf
Loos, architetto austriaco, cerca di mettere un confine tra l’architettura
“artistica” e quella pratica.
Sosteneva
infatti che nell’architettura «è il concetto che può arte, non la costruzione
in sé».
Muller house (1930) a Praga by Adolf Loos
Non
è certo mia intenzione avvalorare o confutare questo punto di vista ma trovo
interessante prenderlo in considerazione.
Chi
mi conosce potrebbe sostenere che avvalorare questa ipotesi sarebbe un modo di
affermare il mio pensiero, l’arte è soprattutto concetto.
Se
è complesso trovare un equilibrio, ed impossibile avere una risposta, non è
meno complicato stabilire il baricentro nella congettura di Loos.
Ogni
abitazione, singola o meno, ha il compito di rendere il più possibile
confortevole la vita di chi vi dimora, ripararci dal freddo, dal caldo, dalle
intemperie, e da tutto ciò che ci è ostile, questi sono i compiti basilari di
una casa.
Poi
ci sono le cosiddette comodità, dove la bellezza, il piacere dell’abitare
emergono, non sono vitali ma aiutano a vivere meglio.
Tutto
questo non è automaticamente arte anzi, non lo è mai, cos’è allora che rende
artistica l’architettura?
Loos
dice che è il “concetto”, il pensiero, che vale per qualsiasi forma d’arte, che
vede oltre il visibile.
Spesso è considerato “artisticamente meraviglioso” tutto ciò che è di grandi dimensioni, stadi, palazzi
sempre più alti, costruzioni sempre più imponenti, ma l’arte non può essere
questo, l’artista spinge lo sguardo più lontano, concettualmente non
materialmente, ecco perché un grattacielo alto più di 500 metri non è arte per
la sua imponenza, lo può essere ma per farlo deve spingersi nel futuro, pur poggiando le sue basi nel presente.
La
Compagnia, un brano scritto dal duo Mogol-Donida nel 1969 per
la voce di Marisa Sannia, passato sotto traccia ottiene una discreta fama nel
1976 quando ad interpretarlo è Lucio Battisti.
La cover del 45 giri originale
Nel 1982 è il gruppo sardo Il coro degli angeli ad inciderlo, due anni dopo tocca ai Tazenda (in entrambi i casi con la voce
di Andrea Parodi) nel 1988 tocca a Mina.
Quasi vent’anno dopo, siamo nel 2007, è Vasco Rossi a
rilanciare il brano, un pezzo che nonostante il testo e le musiche di grande
spessore, oltre all’interpretazione di grandi interpreti, non riuscirà mai a
decollare definitivamente.
Lascio ad ognuno il giudizio sulla canzone e mi
concentro sulla percezione del pubblico, almeno di chi la conosce, e delle
differenti interpretazioni e arrangiamenti che si sono susseguiti in mezzo
secolo.
I più giovani partono dal pezzo di Vasco Rossi e
andando a ritroso nel tempo rischiano di rimanere spiazzati dalle versioni più
soft del passato, chi invece ricorda gli esordi della Sannia fatica a
comprendere lo stravolgimento degli artisti che l’hanno eseguita in seguito.
Scritta appunto per Marisa Sannia l’originale mostra
gli anni che ha e ci riporta ad un periodo dove erano in atto dei cambiamenti
epocali ma dove certa musica italianasembrava
non accorgersi.
Lucio Battisti non ha bisogno di presentazioni, è uno
dei più grandi artisti in assoluto ma ascoltando attentamente il pezzo in
questione possiamo capire perché non è uno dei suoi pezzi più riusciti, anche i
grandi non sono infallibili, questa canzone non è nelle sue corde, si nota uno
sforzo innaturale che sminuisce sia il cantante che la canzone.
Nonostante la voce eccelsa di Andrea Parodi anche le
versioni dei primi anni ottanta passano senza lasciare segni evidenti, questo
conferma (se ce ne fosse stato bisogno dopo Battisti) che il brano è tutt’altro
che semplice, o lo si disegna su misura o il rischio è quello di naufragare.
Il primo serio tentativo è quello di Mina, altro
mostro sacro, che trasforma la canzone con un arrangiamento blues, dove a
tratti veniamo avvolti da un’atmosfera da ballata jazz, in questo caso il
pubblico si divide, gli amanti di Mina lo definiscono un capolavoro, i suoi
detrattori: “un pezzo da dimenticare”.
Passano 19 anni e a riproporre il brano ci pensa Vasco
Rossi, premetto che la mia stima per il cantante di Zocca è vicina allo zero,
ma dal mio punto di vista è questa la versione che più mi convince, riesce a
dare un’anima ad un pezzo che sembrava averla smarrita, un arrangiamento più
rock (per quanto riesca ad essere rock la musica di Vasco) che finalmente trova
il suo abitat naturale.
Non possiamo però ignorare che siamo di fronte ad un arco temporale molto ampio, il mio punto
di vista potrebbe far pensare che Mogol e Donida avessero scritto una canzone
in anticipo sul tempo, ma è altresì fondamentale considerare che il nostro
vissuto e il nostro contemporaneo hanno intrapreso una strada diversa da quella
che, per chi c’era, veniva percorsa negli anni settanta.
Inoltre devono essere presi in considerazione i gusti
personali, le simpatie per i vari interpreti (anche se queste ultime, per
quanto mi riguarda, non influiscono minimamente sul giudizio) e gli stati d'animo
del momento in cui ascoltiamo il brano, indipendentemente da chi lo propone.
Qualcuno dirà che in fondo si tratta solo di canzoni
ma, come in ogni altro ambito artistico, fermarsi al primo ascolto potrebbe
essere un’occasione persa.
Questo è uno dei 14 grandi dipinti della serie Bolsena, tutti realizzati alla fine dell’estate del 1969. Si era rifugiato in assoluta solitudine, Twombly è sempre stato un personaggio schivo e riservato, in una casa di pietra affacciata sul lago di Bolsena.
Cy Twombly (Edwin Parker, Jr.) – Senza
titolo (Bolsena) 1969 – cm 199 x 240 –
National Gallery of Art Washington D.C.
Statunitense di nascita a 29 anni si
trasferisce in Italia dove risiederà fino alla morte nel 2011 all’età di 83
anni, difficile dunque non considerarlo un pittore italiano, anche se
l’influenza dell’espressionismo astratto americano e i concetti neo-dada di
Rauschemberg e Jasper Johns, sono
fondanti per la sua evoluzione artistica.
Ma Cy ha saputo cogliere le infinite
opportunità che gli si sono presentate, ha infatti assorbito lo spirito di
Dubuffet e soprattutto ha raccolto gli spunti offerti dal “contatto” con Burri
e Pietro Manzoni.
L’opera in questione è
particolarmente complessa, la mitologia classica, cara al pittore fin dagli
esordi, è presente nella misura in cui sappiamo che c’è, non tanto perché la
vediamo ma per la sensazione che non possa essere altrimenti.
Scarabocchi, linee, forme, lettere,
numeri, abbozzi e cancellature, abbiamo l’impressione di trovarci di fronte
alla rappresentazione di un “tavolo” di lavoro dove sta prendendo vita
qualcosa, ma di cosa si tratti ancora non lo sappiamo, non ci resta dunque
altro da fare che cerare di scoprirlo o immaginarlo.
Se non siamo di fronte al dipinto
dobbiamo innanzitutto tenere presente che si tratta di una grande tela, due
metri e mezzo per due, questo permette a chi le si pone dinnanzi di immergersi
nel lavoro di Twombly, una dimensione ridotta ribalterebbe il risultato.
C’è della provocazione in tutto
questo? Se ignoriamo chi sia l’autore, se trascuriamo quello che Twombly è
stato ed ha fatto potremmo rispondere in modo affermativo ma, che lo vogliamo o
no, non siamo all’oscuro di tutto ciò, per questo parlare di provocazione
potrebbe essere un esercizio di superficialità, non possiamo permetterci di
essere superficiali.o
Solitario si ma sempre alla
ricerca di nuove “influenze”, sempre aperto a nuove tematiche ma al contempo attratto dall’isolamento, il confronto per dare vita all'idea ma solo un autoimposto esilio gli permetteva di viaggiare liberamente con la fantasia pur raccontando il
presente, artistico e non solo.