lunedì 20 ottobre 2025

La censura nel terzo decennio del XXI secolo

Quale “disegno” si cela dietro l’ottusità censoria nella storia dell’umanità ed in particolare al giorno d’oggi dove, l’accesso ad ogni genere di immagini è disponibile praticamente a chiunque?

Gustave Courbet – Donna con calze bianche, 1864 – olio su tela cm 65 x 81 – Barnes Foundetion, Philadelphia


Mi è capitato, facendo una ricerca su Gustave Courbet, di trovarmi di fronte a riproduzioni fotografiche di opere a cui avevano apposto un bollino nero (o una sfocatura strategica) su alcune parti del corpo nudo femminile.

Nell’epoca della pornografia accessibile a tutti come è possibile che un nudo pittorico debba essere ancora censurato?

Ho provato ad entrare nella testa di questi soggetti (all’inizio è difficile in quanto la parete cranica è spessa, ma una volta entrati c’è tutto lo spazio che uno desidera) e prendere in considerazione le loro motivazioni, asseriscono che gli interventi censori sono indispensabili (sempre parole loro) per evitare traumi e shock a persone sensibili davanti a tali dipinti.

Ammesso e non concesso che questo nel 2025 abbia un senso, mi chiedo perché non vi è un intervento simile su altri quadri che mostrano scene probabilmente più crude, un esempio può essere il capolavoro di Michelangelo Merisi, al secolo Caravaggio, il suo “Giuditta e Oloferne” è sicuramente potente, la violenza emerge in tutta la sua forza (non entro nel merito delle opere prese in considerazione). Davanti a questo dipinto una persona “sensibile” non potrebbe subire il tanto decantato shock?

Caravaggio – Giuditta e Oloferne, 1599-1602 ca. – Olio su tela cm 145 x 195 – Palazzo Barberini, Roma

Evidentemente la teoria sostenuta dai sempre attenti e presenti censori fa acqua da tutte le parti, infatti dove c’è censura c’è un nudo da nascondere (non vanno dimenticati i solerti bacchettoni che, probabilmente a causa di frustrazioni personali, segnalano indignati ogni possibile nudità).

Paradossalmente questi comportamenti si sono intensificati negli ultimi decenni, trenta o quarant’anni fa la censura agiva con meno attenzione, oggi le maglie si sono strette, a dimostrare, se ce ne fosse ancora bisogno, di una regressione sociale e culturale senza freni.

venerdì 10 ottobre 2025

Ai posteri ...

Giorgio Gost, artista parmense celebre per le sue Capsule del tempo, ha “incapsulato” accendini, bottiglie di liquore, penne, bottiglie di vino, stemmi di case automobilistiche, generi alimentari confezionati, dichi in vinile, riproduzioni di opere d’arte moderna e contemporanea, fino ai Bossoli, di cui voglio parlare.

Giorgio Gost - Bossoli, 2019

Inseriti in scatole di plexiglass i vari oggetti, sono frutto di un’economia, quella del secondo novecento, che ha fatto del consumo di massa il suo vessillo.

L’opera Bossoli è del 2019, posteriore agli anni citati in precedenza e in leggero anticipo ad oggi dove i bossoli portano immediatamente alla cronaca di questi giorni.

IL titolo completo di queste opere  è Capsula del tempo per l’anno 6000, un tentativo di lasciare ai posteri degli oggetti di uso quotidiano, in memoria di un’umanità che di memoria non ne ha molta e che forse all’anno 6000 non ci arriverà neppure (ho la vaga sensazione che ce ne andremo molto prima).

Ma perché i bossoli, tracce di armi già utilizzate, specchio della folle miopia umana, colpiscono lo spettatore nonostante siano stati presenti quotidianamente da quando sono stati inventati?

La risposta è che non ci si abitua alla violenza, e questo è motivo di speranza, ma allora perché le cose continuano ad accadere?

L’arte (che al contrario di ciò che siamo abituati a credere non è solo bellezza) ha il potere di scuotere gli individui che ancora hanno voglia di essere scossi, persone che andando in profondità subiscono gli urti del male (rappresentato appunto dalle armi) ma non cedono al fascino che emana, pur sapendo che tutto ciò non è esclusiva dei nostri giorni ma è un’eredità lasciata dal passato e che, purtroppo, lasceremo al futuro.

Non so se la scatola del tempo servirà a spronare gli abitanti del tempo che verrà ad evolversi finalmente o se sarà solo un monito, come è già successo, che verrà bellamente ignorato.

martedì 30 settembre 2025

Nel silenzio gridano le nostre paure

Su Prime Video ho incontrato casualmente un film di cui nessuno, o quasi, parla, anche in rete, dove si vocifera di qualsiasi cosa, non ci sono molte informazioni.


Non aiuta nella ricerca il titolo: “The trail”, la penuria di fantasia ha optato per qualcosa di usato infinite altre volte.

Pellicola indipendente dal budget limitatissimo e dalla struttura narrativa tutt’altro che originale, ma cos è che mi spinge a recensirlo positivamente? Tutto il resto!

In un epoca di film dove emerge la fretta, il caos e lo sproloquio, dove un numero sempre maggiore di personaggi rende tutto caotico, a Stefan Müller, regista austriaco, è bastato eliminare il superfluo e puntare sull’essenziale per ottenere un risultato eccelso.

Sophia Grabner rappresenta il personaggio principale, ma non è solo la protagonista, è l’unico personaggio presente, al netto di poche comparse in scena per pochi minuti, inoltre è assente qualsiasi dialogo, questo rende il tutto profondamente intimo, un frastornate e silenzioso viaggio introspettivo.

Il film inizia in un ospedale dove una giovane donna è a letto in stato d’incoscienza e supportata da varie macchine tra le quali quella che eroga ossigeno, subito dopo appare una scritta: “Un anno dopo”.

Ora siamo in una stanza d’hotel, dove la donna si prepara per uscire, indossa scarponi da trekking, una giacca a vento e uno zaino, davanti allo specchio, prima di chiudere il colletto della giacca attorno al collo notiamo una cicatrice che corre da destra a sinistra sulla gola.

Esce dall’hotel e si dirige verso il bosco, ad un certo punto, mentre percorre un’ampia strada sterrata appare un segnale che indica “Start of trail”, il percorso ha inizio!


A fare da cornice lo spettacolo delle Alpi che accompagna il percorso della donna che al tramonto monta una piccola tenda e accende un fuoco, è proprio davanti alla legna ardente che estrae un taccuino e scrive il nome delle sue paure, che se superate, finiscono nel fuoco impresse nel foglio che viene strappato.

L'indomani incontra, o sarebbe più esatto dire osserva da lontano, alcune persone, senza che però ci sia alcuna interazione, la paura della gente è una presenza ingombrante che deve essere sconfitta.

Tutto scorre tranquillamente, tra il silenzio e i suoni della natura ed il paesaggio mozzafiato che mostra l’infinita bellezza delle montagne, la svolta avviene quando affacciatasi ad una radura trova, incagliata al terreno, un’astronave di provenienza aliena.


Titubante aggira il veicolo e nota un’apertura anomala, come se qualcuno si fosse fatto strada dopo aver divelto le pareti, poco lontano, tra gli alberi, ecco il visitatore straniero, gravemente ferito e riverso a terra, l’alieno porge la mano alla giovane donna che accetta il contatto, la stretta tra le due mani da vita ad un collegamento mentale, ne scaturisce una frase: “It esaped, on its skin” (la traduzione lascia alcune perplessità ma potremmo semplificare con “è scappato per un pelo” o “sulla sua pelle”, il che potrebbe avere un senso nel proseguo del film) le mani si dividono alla morte del visitatore e la giovane protagonista si ritrova nel palmo una piccola sfera.

Qui il fil lascia le atmosfere idilliache per tuffarsi in un vortice scuro e angosciante dove il passato  le paure prendono il sopravvento, non sto a raccontare ciò che succede in seguito, ma dal mio modesto punto di vista vale la pena approfondire, sempre che ci piacciano i silenzi e le discese negli abissi della mente.

 

sabato 20 settembre 2025

L’arte "amatoriale" e il contatto con il pubblico

A chi non è capitato, passeggiando su un lungomare, nel centro storico di una località di montagna, all’interno di un mercatino o in una piazza di qualsiasi città, di incontrare un’esposizione di dipinti?



Come vi comportate, e soprattutto, come venite approcciati dall’artista di turno?

Questa riflessione nasce dalle parole di uno scultore che ho conosciuto recentemente che all’esortazione di un amico comune: “perché non metti su una bancarella e vai sul lungolago a vendere le tue opere?”, ha risposto: “non ho intenzione di stare a guardare la gente che passa davanti alle mie sculture senza fermarsi anche solo a dare un’occhiata, ne tantomeno di continuare a fermare i passanti per incentivarli ad acquistare”.

Questo mi ha riportato alla mente le, perlopiù spiacevoli, esperienze che ho vissuto davanti alle suddette bancarelle.

Io amo cercare in questi “luoghi” qualcosa di interessante, di nuovo, di emozionante, ma ho smesso di fermarmi davanti ai dipinti (mi piace fermarmi per molto tempo cercando quel particolare che mi trasmetta emozioni) per la reazione del pittore/pittrice che non cercano un approccio artistico che porti ella naturale conclusione di una vendita (è l’obbiettivo di chi prende queste iniziative) ma andando al sodo spiegandoti che quel quadro costa tot e quell’altro è più economico.

Premetto che questo modo di fare mi infastidisce per qualsiasi merce, figuriamoci per opere di carattere artistico che hanno un significato ben più ampio di un pezzo di formaggio o di una maglietta.

L’ultima esperienza negativa l’ho avuta qualche mese fa a Firenze, nell’attesa di entrare agli Uffizi, mancava una mezzoretta, mi sono avvicinato ad un banchetto che esibiva disegni realizzati con la tecnica della sanguigna, i soggetti erano piuttosto banali, i soliti luoghi fiorentini, ma il tratto e l’effetto visivo erano parecchio interessanti, ho iniziato ad osservarli con attenzione e dopo un minuto ecco che arriva l’autore che senza salutare esclama: “ecco un altro che guarda ma non ha nessuna intenzione di comprare, me ne intendo io di arte e capisco chi ne sa e chi vuole far perdere tempo”.

Non ho reagito male, non era il caso di scendere al livello (male)educato del tizio che avevo di fronte, gli ho solo fatto alcune domande riguardo la tecnica utilizzata, il tipo di carta, se erano disegni dal vivo o in studio ripresi da immagini catturate in precedenza, a quel punto ha cambiato modo di porsi:”ma lei se ne intende”, dice cercando di riavvicinarsi, con un tiepido “buongiorno” me ne sono andato.

Questa è una situazione al limite ma troppe volte quando ci si avvicina a dipinti, spesso piuttosto scadenti (mia personale opinione) vengo avvicinato con il solito, e unico, argomento, i soldi.

Non dico che chi fa questo mestiere, o anche solo come hobby, non possa pensare al lato remunerativo anzi, penso che questo obbiettivo sia sacrosanto ma che l’approccio con chi dovrebbe acquistare un quadro o una scultura debba essere più artistico, a meno che si vendano dipinti esclusivamente decorativi dove l’aspetto materiale diviene predominante, in questo caso però l’arte non c’entra nulla.

So che il mio parere non vale più di niente ma sarebbe bello che chi vuole vendere il proprio lavoro lo faccia con la profondità e delicatezza che l’arte merita ed esige.

Magari mi sbaglio e gli altri avventori sono “catturabili” più facilmente con un approccio diretto (economicamente) d’altro canto sono loro i venditori …

mercoledì 10 settembre 2025

Quando i dettagli fanno la narrazione

Secondo molti esperti e critici questa è probabilmente la più bella scena all’aperto di Jan Steen, le sue vedute rurali prendono ispirazione da Adrian van Ostade, ispirazione dovuta alla visione delle opere di quest’ultimo più che da una frequentazione personale.

Jan Steen – Giocatori di birilli davanti a una locanda, 1663 ca. – cm 33,5 x 27 – National Gallery, Londra


Steen, noto per essere un ottimo ritrattista, non ha mai nascosto di preferire le scene di vita quotidiana partendo da paesaggi più ampi e “stringendo” fino a sottolineare il particolare.

Dai dettagli parte la narrazione dei suoi dipinti, sfumature più o meno evidenti che, in mancanza di informazioni, aiutano l’osservatore a comprendere ciò che voleva raccontare. 

In questo dipinto, Giocatori di birilli davanti a una locanda, possiamo dedurre il nome della locanda stessa rifacendoci alla figura che appare sul cartello a sinistra, si vede un cigno, il che ci spinge a pensare che sia quello il nome del locale, o quantomeno che ne riporti il senso.

Sotto l’insegna un gruppo di persone discorre tranquillamente sorseggiando qualcosa, il tavolino è semplicemente un barile, dei tre uomini è quello di spalle ad attirare l’attenzione, vestito elegantemente alla moda ci dice che siamo nella prima decade della seconda metà del seicento (alcuni storici confermano questa ipotesi che coincide con la data della realizzazione del quadro).

Accanto alle tre figure troviamo un altro gruppo di persone impegnate in una gara di birilli, la distanza tra chi “tira” e i birilli è sicuramente errata, una concessione al pittore che per motivi di spazio ha ridotto il campo da gioco, questo non toglie nulla all’istante che vede i tre uomini e il ragazzino concentrati sul gioco.

Anche la locanda, posizionata tra gli alberi, quasi nascosta dalle fronde, trasmette un senso di accoglienza, intimità e serenità.

Una scena di vita quotidiana di qualche secolo fa, ad emergere prepotentemente non è solo il racconto di un istante simile ad altri, a prendere il sopravvento è la poesia che in certi frangenti si palesa nella sua grandezza grazie alla pittura che si trasforma in arte.

venerdì 29 agosto 2025

Tributo a … al declino della musica

In questa estate, come di consueto, siamo stati travolti dalle numerose sagre e dalle immancabili manifestazioni musicali che allietano (???) le calde serate di una stagione climaticamente capricciosa.

Pablo Picasso – Il vecchio chitarrista cieco 1903 (part.)


“Festa della birra”, “Sagra della birra”, “Bier fest”, “Festival bier”, “Summer bier” ecc. (la fantasia non va particolarmente di moda in questi tempi e a queste latitudini.

Le serate in questione sono deliziate (dipende dai punti di vista) esclusivamente da: “Tributo a …”, metteteci voi chi più vi garba.

Tributo a Celentano, a Vasco, a Jovanotti, a De Andrè, agli Abba, ai Pooh, a Renato Zero, ad Alan Parson, ai Pink Floyd, alla Pausini, agli 883, ai Modà, a Zucchero fino al tributo a chiunque (un medley di brani popolari senza un minimo senso logico).

Il tutto eseguito, almeno nel 90% dei casi, in modo imbarazzante, per non dire peggio.

Ho preso spunto da ciò che succede dalle mie parti per sottolineare ciò che ormai accade ovunque, l’invasione delle “cover band”, il fatto che canzoni del passato non sono più “reperibili” nei concerti (alcuni artisti non sono più tra noi, altri non reggono l’esibizione live, altri ancora sono difficili da raggiungere) sembra non ci sia alcuna alternativa.

Perché succede tutto questo? Certo la musica contemporanea fa breccia nei più giovani ma non riesce ad emergere come fece negli anni 60/70 dove trovò terreno fertile per un’epocale rivoluzione.

Ma basta la considerazione che il panorama musicale odierno sia sterile per spingere tutti a seguire musicisti, più o meno bravi, che copiano il lavoro altrui? Avrebbe senso se nei musei venissero esposte delle copie di opere del passato?

Naturalmente no, ma allora perché la gente corre a vedere Tizio, Caio e Sempronio che copiano (spesso male) i grandi della musica di ieri?

Tra un tributo (che se anche fosse realizzato discretamente deve fare i conti con un’acustica orribile) raffazzonato e l’ascolto di un disco originale penso che non ci siano dubbi, ma la motivazione di chi ci va è legata all’ascolto in compagnia della musica che piace, ho visto alcune registrazioni di amici che vanno a questi concerti e devo dire che nella stragrande maggioranza dei casi sono terribili, la cosa peggiore è che spesso non se ne accorgono.

È sufficiente la motivazione legata alla compagnia o c’è qualcosa di più profondo in questa “moda”?

Il quesito andrebbe posto anche a chi sta dall’altra parte, si cantano le canzoni degli altri perché non si è capaci di farne di proprie o perché in quel caso nessuno andrebbe ad ascoltarli?

Il titolo del post è volutamente provocatorio ma temo che questo sia un sintomo tutt’altro che positivo, la musica che si è evoluta dagli anni cinquanta fino ai novanta del secolo scorso ha esaurito il suo percorso?

Paul McCarney disse che negli anni 60 era più facile scrivere cose nuove perché c’era un territorio vergine da conquistare, oggi è più complicato perché è arduo dare vita a qualcosa di nuovo, o forse (mia considerazione) non ci sono più la capacità, la perseveranza e il desiderio di farlo.

giovedì 14 agosto 2025

Riflessioni a caldo (al caldo di metà agosto)

“Ma come fa un appassionato d’arte come te a stare senza social”?



Questa domanda mi è stata fatta pochi giorni fa dialogando con una persona durante una piccola mostra locale, giustificando il quesito chiedendomi come fosse possibile informarsi senza Instagram e soci.

Chi mi segue, anche solo saltuariamente, sa già che oltre a YouTube non ho alcun account legato ad altri social (ho chiuso anni fa Facebook e non sono andato oltre).

Dalle conoscenze (artistiche) di questa persona deduco che informarsi sui social non sia esattamente la strada ideale, quantomeno appare doveroso ampliare le fonti di approvvigionamento.

Premesso che un appassionato d’arte debba studiare, approfondire, mettere costantemente in dubbio le proprie e altrui visioni (nel senso che non c’è mai nulla di certo) visitare mostre e musei, cosa fondamentale, leggere libri di ogni sorta e confrontarne i pensieri che emergono, parlare con chi l’arte la realizza (cosa molto più difficile in quanto molti artisti non sono raggiungibili e altri alzano un muro).

YouTube, come detto è l’unico social che utilizzo, propone lezioni e conferenze che altrimenti non vedremmo, ma ci propina anche pseudo esperti impegnati prevalentemente a fare classifiche sui dipinti più belli, quelli più costosi ecc. questo, da come mi raccontano, è ciò che succede anche altrove, video di pochi secondi, perché se superi il mezzo minuto ci si annoia e si “skippa” (sempre sul “tubo”, un commento ad un video sull'arte povera, diceva: “ma come si fa a seguirti se ci metti una vita ad dire qualcosa?” il video durava meno di tre minuti e riassumeva l'intero periodo dl movimento).

Forse sono io l’anomalia, al netto delle capacità divulgative, mi piacciono le lezioni “corpose”, dove ci prende il tempo necessario per spaziare in lungo e in largo, e in profondità.

La domanda ora la faccio io, i social sono veramente necessari per capire l’arte? Sono un aggiunta ad altre fonti o bastano per il fabbisogno?

C’è però un pensiero che mi assilla, non è che si preferiscono Facebook e affini ai libri, non perché sufficientemente esaustivi ma per il semplice motivo che quei pochi secondi ci bastano per sentirci, inconsciamente o meno, eruditi quanto basta?

Come dice il titolo del post, queste sono riflessioni a caldo e con il caldo la mente tende ad appannarsi, siate comprensivi.

Nel frattempo … buon Ferragosto (con o senza arte, con o senza social)

venerdì 8 agosto 2025

La dipartita dell’uomo, l’eternità dell’artista.

Un viaggio e un dono.

Gianni Berengo Gardin ci lascia.

Lascia questo monto imperfetto (il viaggio) ci lascia la perfezione dell’arte (il dono).