Jean Dubuffet ha fatto del realismo crudo il suo centro gravitazionale attorno a cui si muove l’arte al di fuori dei concetti accademici.
Il pittore francese accusa la civiltà greca di aver deciso arbitrariamente cosa sia bello e cosa no.
Jean Dubuffet - Dhôtel nuancé d'abricot (1947) - Olio su tela, cm.
116 x 89
Centre Georges Pompidou, Parigi |
La sua idea di base
prevede un’assoluta istintività nel creare, nel costruire una visione del mondo
che ci circonda, esponente di spicco dell’arte “brut”, intesa come arte grezza,
cruda, senza contaminazioni, fondamentalmente una forma d’arte per pochi, solo
chi è esente da contagi artistici è in grado di dare vita all’arte perfetta,
più pura.
Il ritratto quasi
grottesco, inconcepibile per chi cerca una rappresentazione fedele della
realtà, è esattamente quello che potrebbe creare un bambino nei primissimi anni
di vita, prima che le molte informazioni possano deviarne la purezza di
pensiero.
Dubuffet sosteneva
che oltre ai bambini solo i malati di mente possono raggiungere tali vette
incontaminate in quanto sono gli unici a seguire le proprie strade senza che la
società e la cultura che ci avvolgono possano spingerci verso mete
prestabilite.
L’artista di Le
Havre può essere scandagliato nel suo essere più profondo ma è difficile
approcciare le sue opere senza una visione alternativa, la conoscenza della sua
rappresentazione, del suo personale realismo, possono sfuggirci in qualsiasi
momento, per mantenere la rotta dobbiamo deviare dai nostri consueti binari e guardare
nel suo specchio cercando qualcosa che non conosciamo.
Il rischio che
corriamo è quello di voler interpretare l’espressione della figura ritratta,
nulla è reale, per i nostri canoni, per questo motivo è difficile pensare che
il volto abbia dei messaggi da inviarci, solo osservandolo con un occhio
diverso possiamo immaginare dove è diretto.