sabato 30 novembre 2019

La semplicità e l'eleganza di un piccolo dono, Edouard Manet.


Autore:   Edouard Manet
(Parigi, 1832 – Parigi, 1883)

Titolo dell’opera: L’asperge – 1880

Tecnica: Olio su tela

Dimensioni: 16 cm x 21 cm

Ubicazione attuale:  Musée d’Orsay, Parigi




Piccolo e interessantissimo dipinto che porta con se una curiosa storiella.

Monet aveva dipinto un mazzo di asparagi nello stile delle nature morte dell’Olanda del seicento, il mazzo di ortaggi su un tappeto di foglie e lo sfondo scuro senza alcun riferimento di spazio e tempo. L’opera venne venduta all’amico Charles Ephrussi per 800 franchi, l’acquirente al momento del pagamento versò al pittore parigino mille franchi.

Per ricambiare la cortesia ricevuta Manet realizza questo piccolo quadro e lo spedisce a Ephrussi accompagnato da un biglietto: “Ne mancava uno al vostro mazzo”.

Mentre il primo dipinto segue una precisa struttura compositiva, la seconda piccola opera è libera da ogni convenzione e prende una strada diversa, quasi senza una precisa meta.

L’asparago è assoluto protagonista, non vi è raffigurato nient’altro che l’ortaggio e il bordo del ripiano di marmo che lo sorregge.

Elegante e raffinato nella sua essenzialità il dipinto si lega ad alte opere che in quel periodo venivano realizzate per accompagnare biglietti d’auguri, ringraziamenti o semplicemente come piccoli doni.



sabato 23 novembre 2019

Responsabilità condivise.


L’arte contemporanea si rivolge veramente ad una ristretta cerchia elitaria come sostengono in molti?

E’ vero che molti critici si legano agli artisti più “sponsorizzati” dai media al punto che le cifre di molte opere raggiungono livelli esagerati per quello che è il valore artistico delle stesse opere, ma siamo sicuri che la maggioranza degli appassionati, esclusa da certi “indirizzamenti” del mercato, sia esente da responsabilità?

Gli artisti, i galleristi coadiuvati da alcuni critici ammorbiditi fanno fronte comune per indirizzare il mercato stesso, i collezionisti, spesso si tratta di neo-ricchi che comprano qualsiasi cosa a qualsiasi prezzo, rincorrono l’utopia elitaria alterando i canoni artistici.

Sono però convinto che il pubblico cosiddetto “comune” abbia delle responsabilità, infatti ci troviamo di fronte (ci sono ovviamente delle eccezioni) a due gruppi distinti: quelli che vedono capolavori a prescindere e che accettano qualsiasi cosa gli si mostri e quelli che rifiutano qualsiasi cosa che faccia parte dell’arte contemporanea.

Manca (o è carente) la via di mezzo, sono infatti pochi quelli che si fermano a riflettere davanti ad una novità, invece di analizzare e poi tentare di dare un giudizio equilibrato, la maggioranza vede o nero o bianco e questo permette alle “corporazioni”, artisti-galleristi-critici, di fare e disfare a proprio piacimento e beneficio.




Nell’immagine: George Grosz, Eclissi di Sole, 1926, olio su tela, 207 x 182,5 cm. The Heckscher Museum of Art, Huntington

sabato 16 novembre 2019

La strumentalizzazione dell'arte, Pellizza da Volpedo.


Autore:  Pellizza da Volpedo (Giuseppe Pellizza)
(Volpedo, 1868 – Volpedo, 1907)

Titolo dell’opera: Il quarto stato – 1901

Tecnica: Olio su tela

Dimensioni: 293 cm x 545 cm

Ubicazione attuale:  Museo del Novecento, Milano






Usato e abusato dalla fine degli anni sessanta del secolo scorso fino ad oggi prevalentemente per scopi propagandistici, ha con il tempo perso il suo vero e fiero valore sociale, l’opera di inizio 900 aveva, e ha tutt’ora, un’energia rivoluzionaria che l’opportunismo odierno ha trasformato in un simbolo “altro”.

In un periodo in cui solo il clero, la nobiltà e la borghesia avevano il diritto di fare e disfare a loro piacimento, il pittore di Volpedo vuole dare voce ai contadini, ai braccianti che erano esclusi dal potere decisionale.

Pellizza arriva a questa tela passando per altre due opere, “Ambasciatori della fame” e “La fiumana”, vere evoluzioni di un pensiero ben preciso, la condizione dei ceti più “bassi”, la fame sempre presente, la vita di stenti e fatiche a cui erano obbligati, richiedono una reazione che avvicini a una uguaglianza tra questi ultimi e i tre “stati” che godevano di ben altre risorse (spesso a scapito dei più poveri).

La rivoluzione di Pellizza non è violenta, sia i tre protagonisti in primo piano che la gente che li segue mette in mostra la determinazione di sa di avere la ragione dalla propria parte, nel contempo marcia fiera ma senza segni di belligeranza.

L’uomo al centro appare sicuro di se, è deciso a far valere i propri diritti senza voler usurpare i diritti altrui, l’uomo alla sua destra è l’emblema della saggezza popolare che accompagna la determinazione, mentre la donna con in braccio un bambino (la modella è la moglie del pittore stesso) mette in prima linea la presenza fondamentale della donna e quella delle generazioni future.

Che il clima sia consapevole e addirittura calmo e sereno (calma e serenità, anche in momenti turbolenti, vengono dalla ragione) si denota dai volti delle persone, dal modo in cui discutono tra loro e dalla presenza di bambini.

Ogni opera va contestualizzata, siamo ai primi del 900 e questo dipinto ci parla del tentativo di raggiungere un livello sociale, culturale e morale che sia uguale per tutti, letta dopo sessant’anni o dopo un secolo deve dare i giusti spunti di riflessione, ogni strumentalizzazione impoverisce il concetto rendendolo sterile.




Ambasciatori della fame, 1892
Olio su tela, cm. 51,5 x 73
Collezione privata


Fiumana, 1898
Olio su tela, cm. 255 x 438
Pinacoteca di Brera, Milano

sabato 9 novembre 2019

L'arte contemporanea e la sua mesta dissolvenza.


Gabriel Orozco, Scatola di scarpe vuota, 1993.

Presentata alla Biennale di Venezia riscuote molto successo, ma a ventisei anni di distanza cosa rimane?


 L’arte contemporanea è probabilmente al capolinea, ciò che nasce nella seconda decade del novecento con i Ready Made  di Duchamp, in particolare con il celeberrimo “orinatoio”, si sviluppa in un continuo crescendo fino alla Pop Art di matrice “warholiana”, per poi iniziare un lento declino che trova l’ideale “spegnimento” con il poco originale e vagamente (nemmeno troppo) kitsch, Wc d’oro di Cattelan.

Nell’arco di questo secolo (anche se è un controsenso definire contemporaneo un arco di tempo cosi ampio) le idee iniziali si sono evolute per un certo periodo per poi ridursi a una ripetizione, a una autocelebrazione del già visto.

La scatola da scarpe vuota di Ozorco nella sua semplicità ci diceva semplicemente che l’arte, per come viene espressa in questo periodo storico, si è svuotata di ogni sensazione ed emozione, un vuoto concettuale di cui abbiamo coscienza solo ora.

 Sarà comunque sempre il tempo a dirci se l’inizio del XXI secolo passerà alla storia come l’inizio di un nuovo modo di esprimere arte o la conclusione di un periodo d’oro che si è spento nell'autocompiacimento.

sabato 2 novembre 2019

Fino alla fine, Dora Maar.

Autore: Dora Maar
(Tours, 1907 – Parigi, 1997)

Titolo dell’opera: Senza titolo – 1934

Tecnica: Fotomontaggio, stampa alla gelatina d’argento


Ubicazione attuale:  Musée National d'Art ModerneCentre Pompidou, Parigi




Surreale nell’animo artistico, fin troppo “reale” nella sua sottomissione al “minotauro”, artista di grande talento che viene ricordata solo come modella, musa e amante di Picasso che, ne assorbe l’energia per poi accantonarla in un angolo.

La sua storia con il pittore spagnolo le ha sottratto l’intensità artistica che aveva espresso fino a quel momento, non sappiamo quale strada avrebbe preso se non avesse incontrato Picasso ma possiamo immaginare che senza lo “svuotamento” dovuto alla relazione e successivamente all’abbandono con l’artista catalano staremmo parlando di un’altra Dora Maar … o forse no.

A quantificare l'esaurimento  delle energie, artistiche e psicofisiche, dovute a tutto questo basta una sua frase: “Io non sono stata l’amante di Picasso, lui era soltanto il mio padrone”.

Dora Maar incontrerà Picasso l’anno successivo alla realizzazione di quest’opera, ma conoscendo ciò che è successo viene spontaneo parlare di premonizione o della consapevolezza della propria essenza, avesse realizzato questo lavoro più tardi diremmo che ci ha lasciato un testamento spirituale e un resoconto di una vita.

La fotografia “blocca” l’istante rendendo la realtà irreale, ma può anche regalare un’oggettiva tangibilità a ciò che fondamentalmente reale non è.


L'illusione spesso si confonde con ciò che è reale, spesso l'artista, ma anche lo spettatore, cercano e trovano solo ciò che desiderano fosse vero nascondendo inconsciamente quella verità che si vuole accantonare.