domenica 28 febbraio 2021

Il lato umano dell'arte, Vanessa Beecroft

Quest’opera ha suscitato, e suscita tutt’ora, reazioni contrastanti, sdegno, ammirazione, fastidio, curiosità. Qualsiasi sia la risposta del pubblico non è comunque di indifferenza.

Vanessa Beecroft è famosa per i suoi “tableau vivant” (quadri viventi) dove il malsano rapporto con il cibo dell’età giovanile è predominante sotto forma di impersonali soggetti, spesso svestiti, che sottolineano il rapporto contrastante tra il corpo e la sua rappresentazione.

Quest’opera però prende una strada completamente diversa, sia stilisticamente che concettualmente, cambia anche il rapporto con l’opera in sé, non si tratta più di una performance ma di un attimo fermato dalla macchina fotografica, ma è la presenza della stressa Beecroft come protagonista della scena a ribaltarne i concetti.

Questo lavoro del 2005 ha nel titolo il suo senso assoluto “Madonna bianca con gemelli”, dalla sua prima esibizione pubblica non ha ricevuto molti apprezzamenti, è stata tacciata di buonismo, accusata di voler andare controcorrente in un paese, l’Italia, che si scontra sul tema dell’immigrazione.

Se ci limitiamo ad uno sguardo superficiale o anche più attento senza la ricerca del perché di questa opera, ne riceviamo delle forti sensazioni, magari contrastanti, legate al solo aspetto visivo, al contrario la consapevolezza e la conoscenza dei “passi” che hanno dato vita all’idea ci aiutano a capire cosa l’artista genovese vuole raccontarci.

Il viaggio in africa in una missione, l’incontro con i due gemelli ospitati in uno dei moltissimi orfanatrofi fino al tentativo, non riuscito di adottarli.

Questo incontro viene immortalato ma non basta una semplice fotografia che ne racconti l’incontro con estremo realismo, la Beecroft vuole uscire dalla sfera emozionale personale, cerca di tramutare l’insieme in un simbolo universale.

Il tema della distinzione-indistinzione delle razze è evidente, cosi come traspare il lato umano, dove la condivisione è la regola e non l’eccezione.

E’ decisamente difficile trasmettere questo messaggio in un’epoca complessa dove l’intolleranza da una parte e la falsa compassione dall’altra creano un monopolio di dove l’interesse personale la fa da padrone, anche nel fingersi compassionevoli.

Non ci resta che metterci in silenzio davanti a questa immagine e lasciarci trasportare dalle emozioni svuotandoci di ogni pregiudizio, l’immagine della “Madonna” che tiene in braccio i due bambini nutrendoli e difendendoli dalle inevitabili difficoltà è di una forza estrema, la crepa nel muro alle spalle ci dice che tutto è relativo, che nonostante l’intervento della donna i due bambini non sono al sicuro.

L’ultimo particolare riguarda l’orlo della veste bianca, non è sporco o stracciato, è bruciato , tutto dunque è destinato a consumarsi inesorabilmente.

La fotografia è parte della collezione della Fondazione San Patrignano ospite a tempo indeterminato del PART di Rimini.

sabato 27 febbraio 2021

Quando una semplice copia viene (arbitrariamente) considerata un capolavoro

Rokefeller Junior ha richiesto la restituzione dell’arazzo che il padre aveva commissionato nel 1984 e prestato all’ONU, l’arazzo in questione rappresenta il celebre dipinto di Picasso “Guernica”.

“Il capolavoro di Pablo Picasso non sarà più visibile al Palazzo di vetro” cosi titolano molti quotidiani ignorando (più o meno consciamente) che non si tratta del dipinto del pittore catalano ma di una, seppur costosa, copia.

Non so cosa spinga a credere che questo arazzo sia una grande opera, penso solo che la perdita artistica del palazzo delle Nazioni Unite sia pressoché irrilevante, il fatto che sia stato tessuto dal celebre atelier francese Jacquelin de La Baume-Dürrbach può accrescerne il valore economico non quello artistico.

Se all’ONU decideranno di appendere un’opera originale, non importa chi sia l’autore, avranno comunque fatto un passo avanti.


domenica 21 febbraio 2021

Il ritorno dell'inquisizione, l'abisso della censura.

15 mesi fa questo dipinto di Delvaux, che accompagnava un post dedicato a Peggy Guggenheim, ha causato il blocco del mio blog su Facebook con la motivazione: “Questo post viola i nostri standard su contenuti sessualmente espliciti”.

Inutili le segnalazioni di quello che è un errore madornale (o incompetenza, ignoranza, chiamatela come volete) non che questo mi abbia tolto il sonno ma mette in luce un problema più ampio e più grave: il ritorno di una censura inquisitoria che pensavamo scomparsa.

Nel 2021 con tutti gli accessi ad ogni tipo di immagini e testi, il ritorno al potere dei “bacchettoni” di facciata, dei benpensanti, del “politicamente corretto” ci sta trascinando in un abisso senza fondo.

L’assenza di idee, la mancanza di senso critico e autocritica spinge la sempre crescente massa di automi, instradati dalla povertà del linguaggio e fautori dell’insulto come forma espressiva massima, verso la censura di qualsiasi cosa abbia un senso.

Propongo questo dipinto (realizzato nel 1937, questo ci mostra quanto siamo caduti in basso) come le disposizioni del social e come la mente malata di molta gente vorrebbe vedere.

Se questo è il futuro …


sabato 20 febbraio 2021

L'effimero dell'arte, Jean-Michel Basquiat

Autore:   Jean-Michel Basquiat

(New York, 1960 – new York, 1988) 

Titolo dell’opera: Pegasus, 1987

Tecnica: Matita, acrilico e pastello a olio su carta trasportati su tela 

Dimensioni: 223,5 cm x 228,5 cm 

Ubicazione attuale:  Collezione privata



“Il disegno più bello di sempre”, con queste parole la gallerista Annina Nosei traccia un percorso visivo e intellettuale in quello che potremmo definire il risultato finale dell’arte di Basquiat.

Se ci avviciniamo alle discusse opere del pittore newyorkese non possiamo ignorare quanto queste siano lo specchio della società americana, e non solo, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta.

Il consumismo sfrenato, l’utilizzo e lo scarto, tutto in un brevissimo arco di tempo, sono identificabili nella pittura e nella vita di Jean-Michel, l’effimero che svanisce in un attimo.

Ma l’opera che prendo in questione ha già smaltito l’ascesa e si accinge a varcare le soglie del “dopo”, inteso come un luogo dove non vi è alcuna certezza.

Pegasus è un’infinita serie di parole, disegni, concetti e storie, concetti fondamentali o privi di ogni senso logico? Più probabilmente fondamentali proprio perché apparentemente prive di logica.

Difficile cercare di approfondire questo disegno senza considerare il breve ma intenso lavoro che l’artista di Soho ha fatto precedentemente, ma dobbiamo anche volgere lo sguardo in avanti: l’anno dopo la realizzazione di Pegasus realizza due tele “Eroica I” ed “Eroica II” che chiudono la carriera di Basquiat, la morte per overdose ne chiude la vita stessa.

Eroica, un termine che appare ripetutamente in Pegasus, rimanda alla sinfonia n.3 di Beethoven, forse un cerchio che si chiude là dove sembrava quasi impossibile.

Davanti alle tele “Eroica I e II” Basquiat si fa fotografare con le parole “Man dies” (l’uomo muore) erano già evidenti i segni lasciati sul volto dall’uso di droga, Jean-Michel vuole farci comprendere uno stato d’animo senza più scelta.

Ma se Eroica viene dopo Pegasus non esclude che il viaggio a ritroso nel tempo ci racconti le stesse sensazioni, la parola “Eroica” appare in quest’ultima opera, il viaggio finale è dunque già iniziato.

sabato 13 febbraio 2021

Viaggi e illusioni, Pierpaolo Vici

Ho già avuto l’occasione di parlare dell’artista riminese Pierpaolo Vici, pittore che “viaggia” nella profondità del pensiero creando così un suo personale percorso artistico dove l’invisibile si insinua nel “reale” modificandone l’essenza.

Questa volta però voglio affrontare una sua opera in modo completamente diverso, innanzitutto perché non si tratta di un dipinto ma di quella che possiamo considerare un’installazione-scultura dove Vici non interviene manualmente ma con l’idea (chi mi conosce sa quanto sia per me fondamentale l’idea che da vita ad un’opera).

Altra differenza rispetto al dipinto che ho proposto in passato sta nella quasi assenza di “realismo”, mentre nella pittura, pur insinuandosi oltre i confini della fisicità umana e addentrandosi  nel profondo dello spirito, il percorso figurativo è palese, in questo frangente qualcosa si intravede ma solo dopo alcune informazioni.

L’opera in questione è composta da quattro strisce, ognuna di misura diversa, e da un ovale in marmo incastonati nel muro, non ci sono altre indicazioni, nessun titolo, nessun accenno al nome dell’autore ma soprattutto niente che metta in risaldo la scultura, persino il colore del muro non fa nulla per attirare l’attenzione sull’opera.

Il manufatto di Vici cerca lo sguardo di chi è predisposto all’incontro con quest’ultimo, l’obbiettivo dell’opera è quello di passare inosservato agli occhi distratti dei passanti lasciandosi catturare da chi riesce ad entrare in simbiosi.

Ma questo può non bastare, non va trascurato il fatto che non siamo in un luogo deputato all’arte, il muro non è parte di un museo o di un luogo comunque deputato all’arte, per questo motivo l’opera rischia di mimetizzarsi con l’ambiente circostante, lontani dunque da un luogo “artistico” viene da chiedersi: di cosa si tratta? Cosa vuole “raccontarci”? Ammesso che voglia dire qualcosa.

Finché ad un certo punto mi sono deciso e ho chiesto informazioni (solo allora ho saputo il nome dell’autore) e di conseguenza ho chiesto a Pierpaolo di cosa si trattasse e la risposta è stata breve e precisa: “Si tratta del sole sul mare”.

Queste le poche parole hanno aperto definitivamente l’opera ad un infinito numero di possibilità interpretative, l’opera ha dunque acquisito un titolo.

Il sole sul mare, potrebbe trattarsi dell’alba o del tramonto, siamo a Rimini, l’autore è riminese e il sole sull’Adriatico sorge (il tramonto è dedicato agli Appennini) l’arcano è presto svelato … forse.

Se osserviamo il levare del sole o un tramonto sull’acqua notiamo che la nostra stella, quando è in prossimità dell’orizzonte, tende ad allungarsi, sia che sorga o che si accinga a calare, il sole da l’illusione ottica di allungarsi a toccare l’acqua, diventa cosi un ovale ma l’allungamento è in verticale, perché Vici l’ha voluto orizzontale?

A questo punto la fantasia interpretativa prende il largo, la sfera è schiacciata, sembra che una forza invisibile prema per spingerla in acqua ma il sole si rifiuti di tramontare, il mare è quello della riviera romagnola dove il tramonto “marino” non è contemplato.

E’ la rappresentazione di una forzatura “esterna”, quasi aliena, nei confronti del sistema naturale delle cose o il messaggio dell’artista è più intimo, personale?

La risposta non c’è e in fondo non è quello che voglio, mi piace pensare che davanti ad un’opera che non ha il pressante desiderio di farsi notare si celino infinite varianti dove ognuno può sbizzarrirsi con le proprie letture.

Certo Pierpaolo non può non aver trasmesso parte del proprio essere nell’anima della scultura, quale sia la parte solo lui può saperlo (cosa non scontata in quanto si può inserire l’inconscio e tutto prende un’altra strada) a noi non resta che il piacere di un viaggio in una dimensione resa accessibile da quelle poche ma fondamentali parole.

Un tramonto forzato e rifiutato? Forse solo una visione “altra” dell’alba.

E se si trattasse di un altro mare? E se il mio viaggio portasse altrove?

E se tutto fosse un’illusione?

sabato 6 febbraio 2021

L'arte "consumata", James Ensor

 Autore:   James Ensor

(Ostenda, 1860 – Ostenda, 1949) 

Titolo dell’opera: Scheletri che si contendono un’aringa salata, 1891

Tecnica: Olio su tavola

Dimensioni: 16 cm x 21 cm

Ubicazione attuale:  Musées royauxdes Beux-Arts de Belgique, Bruxelles



L’intera opera gioca sull’assonanza delle parole “Hareng saur” (aringa salata) e “Art Ensor”, il pesce altro non è che la metafora dell’artista belga che viene da una parte conteso e dall’altra divorato dalla critica.

Ensor ha vissuto la propria arte in modo complesso, c’era la convinzione di essere un artista innovativo, che andava alla ricerca di qualcosa di sconosciuto all’epoca, era convinto di aver trovato una nuova strada artistica (cosa che in fondo è tutt’altro che campata in aria) ma sentiva l’ostilità crescente del pubblico e, soprattutto, della critica, quest’ultima ne riconoscerà i meriti ma solo negli ultimi anni della vita di Ensor.

Se consideriamo che il riconoscimento dell’arte di Ensor avviene a distanza di più di mezzo secolo dalle sue prime opere, ci rendiamo conto che forse la critica di fine ottocento non era in grado di comprendere la visione proiettata nel tempo.

Tornando al dipinto notiamo che ci sono tre distinti livelli, i due scheletri si contendono l’aringa, questo dimostra che in fondo c’èra un’attenzione alle opere di Ensor, ma la contesa è mirata a divorare, la critica cerca dunque di impossessarsi dell’aringa per fini strettamente egoistici e non certo per il bene assoluto della pittura.

Resta il fatto che i protagonisti della “sfida” sono due scheletri, la critica consumata dall’avidità, dal consumismo, è praticamente morta, l’aringa salata si erge cosi a protagonista moralmente ineccepibile, vittima di un sistema destinato alla distruzione.

Come spesso accade nei dipinti di Ensor l’aspetto cromatico è fondamentale, nonostante le tematiche non siano positive vengono descritte con un’intensa colorazione, questo manifesta il surreale mondo dell’arte (in questo caso specifico ci si riferisce al mercato) che ammantandosi di colore cerca di sviare, se non di nascondere, il grigio che impera nel suo intimo.