“Fa che piova, fa che il cielo mi lavi il dolore, fa che piova che sia la pace il nome d’amore”
Claude Monet – Mattina di
pioggia sulla Senna, 1897 – Olio su tela – Mational Museum of Western Art,
Tokyo
"Un tempo per la meraviglia alzavamo al cielo lo sguardo sentendoci parte del firmamento, ora invece lo abbassiamo preoccupati di far parte del mare di fango".
(da
Interstellar)
René Magritte – I misteri dell’orizzonte, 1955 –
Olio su tela cm 50 x 65
Quando pensiamo al film di Nolan, Interstellar appunto, andiamo con la memoria al pianeta di Man e alle sue gigantesche onde, al tempo che scorre lentamente nei pressi di un buco nero rispetto a ciò che succede sulla terra, pensiamo a Gargantua, forse la più realistica rappresentazione dei giganteschi Black Hole.
Ma è proprio la frase sopra citata che rivela il “limite” umano, sia nel film che nella nostra quotidiana realtà.
Cooper esclama quelle parole dopo che l’insegnante della figlia stigmatizzava il fatto che la giovane ragazza sostenesse la tesi della veridicità dell’allunaggio del programma Apollo.
L’insegnate sostiene che le missioni sono state una finzione atta a mettere in crisi l’Unione Sovietica, e denuncia il fatto che la ragazza si azzuffasse con i compagni per: “questa assurdità dell’Apollo”.
Queste assurdità, una teoria che ha molti seguaci oggigiorno, e che, se stiamo all’esito raccontato nel film, non ci condurranno molto lontano.
Tornando
alla frase iniziale, non possiamo non accorgerci che stiamo abbassando sempre
più la testa, sono pochi quelli che hanno ancora il coraggio di guardare in
alto, o forse sembrano pochi perché lo fanno in silenzio, in contrapposizione
dei cultori del nulla che non fanno altro che urlare.
Cesare Bortolotti - Castagno secolare, 1904 - Olio su tela cm 95 x 130 - Collezione privata |
Il
titolo dice: “Picasso, De Chirico, Morandi, 100 capolavori del XIX e XX secolo
dalle collezioni private bresciane”, naturalmente i nomi di spicco sono quelli
che appaiono nel titolo ma è l’intero percorso, dove artisti celebri si
accompagnano ad altri meno conosciuti, ad essere particolarmente affascinante.
Seguendo
la guida che ci illustrava le varie opere lo sguardo mi cade su un dipinto che
si inseriva perfettamente nel contesto della sala, sulle pareti erano appesi
numerosi paesaggi, il rischio di passare inosservato era alto, quantomeno c'era la possibilità che il resto lo inglobasse.
La
mia prima reazione, immediata, sta nella frase che ho detto a mia moglie: “mi
sembra di essere tornato a Paspardo”.
Paspardo
è un piccolo comune della Valle Camonica in cui ho vissuto dall’età di sette
anni fino al compimento dei 14, la scena, ma soprattutto il paesaggio del
quadro mi ha riportato agli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, avevo la
sensazione di essere stato proprio nel posto “raccontato dal dipinto.
Ad
un certo punto la guida prende in considerazione proprio quest’opera e le prime
parole sono state: “Cesare Bertolotti con questo quadro racconta i boschi di
castagno che, a tutt’oggi, circondano il paese di Paspardo”.
Dunque
non si trattava di suggestione ma quel posto era veramente il luogo che
conoscevo, in cui ho vissuto fino a quarant’anni prima, i castagni, le rocce, bianche, ora ne
sono certo, so esattamente dove Bertolotti si è fermato a dipingere quello
scorcio.
La
tecnica non perfetta trasmette una sensazione di leggerezza poetica, non è la
fotografia di un luogo, è la proiezione di sensazioni intense legate a quel
posto, la poesia che emerge da quella donna che con la “gerla” colma d’erba fa
ritorno a casa, ed è proprio il ritorno il tema che il mio vissuto percepisce
dal dipinto.
In quell’istante vengo proiettato indietro nel tempo, non è l’istantanea di quella località a permettermi il viaggio, è la poesia dell’arte a tracciare la via.
Pensare che un dipinto del 1905 sappia, nel 2019, aprire un portale che porta al 1975 ...
“In realtà Hopper è semplicemente un cattivo pittore, ma se fosse un pittore migliore, probabilmente non sarebbe un artista cosi grande”.
Edward Hopper – Gas, 1940 – Olio su tela cm 66,7 x 102,2 – The Museum of Modern Art (MoMA) New York |
Questa
frase, apparentemente paradossale, di Clement Greenberg, mi spinge all’ennesima
riflessione: è sempre più evidente che non tutti quelli che dipingono si
possono definire pittori, a maggior ragione sono pochi i pittori che si possono
definire artisti.
L’illusoria semplicità, un “disordine” tecnico o una cromia “sporca”, o al contrario, la
complessità descrittiva, una tecnica inappuntabile o una pulizia assoluta, non
sono un parametro sufficiente per considerare o meno “artista” chi si dedica
alla pittura.
L’artista
è colui che “dice” quello che fino ad allora nessuno aveva nemmeno pensato.
Hopper
sicuramente non è un cattivo pittore (come sostiene provocatoriamente
Greenberg) ma non possiamo nemmeno definirlo un’eccellenza tecnica, Hopper è un
artista che tramite la pittura ha “detto” qualcosa che fino ad allora nessuno
aveva pensato di fare.
Ha
raccontato l’animo umano come nessuno aveva fatto fino ad allora, ne ha mostrato le
debolezze, ha dato volto alla solitudine, ha descritto la “strada” della
modernità dal punto di vista delle emozioni o della limitazione delle stesse.
Se
il pittore americano è riuscito ad entrare negli occhi e nel cuore di
moltissimi appassionati d’arte non è per la sua tecnica pittorica ma per la
capacità di comunicare, attraverso le sue opere, con l’osservatore in cerca di
sé stesso, grazie ad un linguaggio solo apparentemente semplice ma estremamente
efficace.
L’arte deve viaggiare o deve essere meta di un viaggio?
Giovanni Bellini (con intervento sul paesaggio di Dosso Dossi e Tiziano Vecelio) - Festino degli dei, 1514 – Olio su tela cm 170 x 188 – National Gallery of Art, Washington
Da
tempo si discute sulla libera circolazione delle opere d’arte, è il caso di
farle circolare per i cinque continenti o fare in modo che siano visibili nelle
loro “cattedrali”?
In entrambi i casi c’è un beneficio ed il naturale “altro lato della medaglia”.
Le
opere in movimento darebbero la possibilità a chi non può viaggiare di poterle
ammirare, ma non è da sottovalutare il rischio (altissimo) di danneggiamento
per non parlare di un deterioramento che le condannerebbe all’oblio.
Se
restano definitivamente nei loro luoghi abituali si riduce sensibilmente il
numero di persone che possono ammirarle ma, oltre al discorso conservativo, si
aggiunge l’importanza della visita legata alle culture che le ospitano.
In
molti sono convinti che le opere d’arte debbano “risiedere” nel paese dove sono
state realizzate, questo però impedirebbe uno scambio artistico e culturale che
reputo fondamentale.
Un
dipinto realizzato in Italia da un pittore italiano ha il diritto di “prendere
casa” negli Stati Uniti, in Asia o in Sudamerica, naturalmente il discorso cambia per quelle
opere che sono state trafugate da paesi, che si dichiarano “civili”, a scapito di altri
popoli indifesi.
Oggi,
al netto di tante opere che andrebbero restituite, abbiamo l'infinita opportunità
di ammirare dipinti, sculture e fotografie di paesi lontani esposte,
legalmente, in altri luoghi in giro per il mondo.
A
Parigi, Londra, Cracovia, Washinton, si possono ammirare quadri di Leonardo
da Vinci, questo permette di osservare le opere del grande artista toscano senza doversi recare in Italia, noi possiamo fare altrettanto con Pollock
senza l'incombenza di attraversare l’Atlantico (questo è solo un esempio tra moltissimi
altri).
Non
so quale sia la scelta ideale, forse la via di mezzo è la scelta più logica, peraltro già
attuata, il movimento limitato a mostre particolari che riuniscono le opere di
un singolo artista.