Pagine

sabato 27 novembre 2021

Astrazione e realismo, due mondi differenti o una visione "altra" della realtà?

Capita spesso di vedere opere astratte a cui viene dato un titolo che ne indirizza l’interpretazione.

Se un dipinto “astratto” è accompagnato da un’indicazione possiamo ancora parlare di astrattismo?

“Senza titolo” o “Primo acquerello astratto” non da nessuna informazione, Kandinskij in questo caso presenta un’opera dove non c’è traccia di indicazioni.

Rothko si limitava a descrivere nel titolo i colori che componevano lo schema del dipinto (ma guai a dire che si trattava di opere astratte, Rothko non lo ha mai accettato) e questo poteva comunque indirizzare l’osservatore verso l’astrazione.

Basta dunque l’astrazione visiva del dipinto, scissa dal titolo e limitata a ciò che vediamo o, come la vedo io, l’astrazione deve essere totale, oltre ai colori, alle forme anche il concetto deve seguire lo stesso percorso?

Ad un certo punto l’idea stessa di astratto e figurativo che vanno in conflitto potrebbe essere accostata a qualcosa di inutile, se davanti ad una forma “informe” in quanto “irreale” potremmo reagire in due modi; essendo la suddetta forma lontana da un realismo canonico la leggiamo come astrazione, oppure dinnanzi ad una forma in quanto tale , anche se difficilmente riconoscibile, allontaniamo l’idea di astrazione considerando la presenza di una “forma” sufficiente per definire il tutto “realistico”.

Correnti di pensiero volgono lo sguardo verso un’interpretazione astratta di un’opera sempre realistica, non importa se ciò che vediamo è immediatamente riconoscibile o meno, il solo fatto che ci sia qualcosa di tangibile (all’occhio) è sufficiente, l’astrazione quindi nasce con ciò che ognuno di noi vede oltre la forma ma questo annienta ogni tentativo di creare forme indistinte per liberare l’idea di astratto chiusa nella nostra percezione.

Svuotando l’opera da qualsiasi forma, e di conseguenza anche dal colore possiamo ricreare l’astrazione? Secondo il pensiero appena sviluppato sembrerebbe di no, anche una cornice vuota, sia che circondi una tela immacolata o addirittura senza tela, manda un messaggio, “crea” una forma, a questo punto il confronto tra “figurativo” e “astratto” diviene il confronto tra corpo e mente, tra materia e spirito.

Dopo un ragionamento di questo tipo la domanda iniziale viene scavalcata da un altro quesito: Astrazione e figurativo hanno un senso? Esistono o sono l’ennesimo “steccato” che fa da confine in un mondo, quello “invisibile” ai sensi, che non può essere concepito senza?

nell’immagine: Vassilij Kandinskij, Untitle (primo acquerello astratto) 1910, cm 46,9 x 61,8 – Centre Pompidou, Parigi

giovedì 25 novembre 2021

Siamo degni di questa esistenza?

"Gli uomini hanno paura che le donne ridano di loro, le donne che gli uomini le uccidano".

Queste parole di Margaret Artwood sono il sunto della situazione tragicamente in essere.

Tutto si riduce (si fa per dire, perché il problema è immenso) all’insicurezza maschile alimentata da una cultura “ottusa” che ci accompagna da sempre.

Non voglio addentrarmi sulle pene da inasprire, controlli più pressanti dopo una denuncia, eccetera, dobbiamo iniziare a “comprendere” le dinamiche di un sistema maschile totalmente allo sbando, l’uomo è fondamentalmente malato di incultura.

Non centra il grado d’istruzione, il titolo di studio, il punto focale è la vigliaccheria di chi trasforma in violenza  la propria nullità.

Il femminicidio (termine che non mi piace ma che va dritto al punto) è l’apice di un problema decisamente più ampio, la violenza fisica non necessariamente mortale e quella psicologica non sono meno devastanti, inoltre ci sono quei piccoli e apparentemente insignificanti atteggiamenti che lacerano le vittime più di quanto possiamo immaginare.

A questo va aggiunta la discriminazione, nelle scuole, al lavoro e soprattutto tra le mura domestiche.

Ma per capire (o almeno cercare di farlo) quello che sta succedendo dobbiamo tornare alla frase della Artwood, l’uomo ha paura che la sua misera esistenza venga a galla (l’uomo che si mette in discussione è culturalmente pronto per un confronto senza temere alcunché) perdendo cosi un potere che solo lui si riconosce, la donna teme per la propria vita, solo questo è sufficiente per capire in quale abisso stiamo precipitando.

L'opera che ho scelto per accompagnare questo mio pensiero (di cui non conosco l'autrice (Maia Schwartz?), ritengo che esprima perfettamente lo "stato d’animo" di chi quotidianamente combatte, spesso senza speranze, contro i demoni che popolano il buio quotidiano.

sabato 20 novembre 2021

La poesia, antidoto contro l'orrore?

Un atto d’accusa verso quell’universo subumano che con mano immonda fa appassire anzitempo i fiori ancora in bocciolo.

Gianpiera Sironi abbandona momentaneamente la sua “leggerezza” poetica per gridare al mondo l’indignazione di chi inorridisce di fronte a certe azioni.

Non servono spiegazioni (la poesia, quella vera, non ne ha mai bisogno) per comprendere lo stato d’animo della poetessa, stato d’animo che facciamo nostro non senza un nodo allo stomaco.

La poesia è un’arma di estrema “potenza”, è fondamentale saperla maneggiare con competenza senza lasciarsi trasportare dall’impeto ma al contempo senza sminuirne il contenuto mostrando quella poetica che emerge anche nelle parole più dure.

Questi versi riecheggiano senza fine, senza perdere d'intensità, nella speranza che un giorno si adagino sulla strada della serenità.



Abuso


Come potrà la tua sporca mano

toccare ancora un fiore?

Cosa farai nel silenzio della notte

quando urlerà di vergogna

il senso del pudore?

Meglio una macina al collo

un arto amputato,

troppo grande l'onta che ti ha macchiato

e segnato il destino.

Fino a che vivrai

avrai davanti

due occhi imploranti

di bambino.


(Gianpiera Sironi)




nell'immagine: Paolo Migliazza, We are not super heroes, 2017-2020



Le tre linee della trascendenza

Vorrei completare quella che per me è la trilogia della “Vita immateriale” di Pierpaolo Vici.

Ho già proposto in passato due opere che, sempre da un mio personalissimo punto di vista, sono impercettibilmente legate da un “filo” che le unisce dando cosi vita alla terza opera che potrebbe considerarsi il “terminale” di un percorso spirituale-filosofico.

Il primo tassello è senza dubbio la scultura-installazione “Senza titolo”, dove il concetto della nascita e della rinascita emerge da una costruzione apparentemente astratta che lascia allo spettatore l’onere e il piacere della decodificazione del messaggio.

La seconda opera di questa ipotetica trilogia (ipotetica in quanto non considerata tale dall’autore e frutto di una mia personale “visione”) è Taj Mahal (Una vertigine dell’anima) in questo caso la via da seguire è tracciata ma non sappiamo in quale direzione ci porterà e quale sia il costo da pagare nell’affrontare la “costruzione mentale” del nostro Io, ci si deve specchiare per capire se siamo pronti ad affrontare noi stessi, azione imprescindibile per passare al livello successivo.

L’opera che voglio mostrarvi è il raggiungimento di una dimensione altra, o sarebbe meglio dire “oltre”.

Bagan-Angkor (La radura) è il traguardo spirituale raggiungibile solo dopo un incessante peregrinare al di là del tempo lineare, il raggiungimento di un equilibrio interiore che ci permette di vedere, sentire, assaporare, ciò che non possiamo ottenere in un’intera vita “materiale”.

Il “tratto” quasi incorporeo del pittore riminese, una velata foschia che ammanta il paesaggio, fanno da cornice e al contempo danno vita all’albero che domina la radura.

La minuscola figura immobile sotto le fronde si erge a centro gravitazionale del quadro ma non cela la distanza dimensionale tra il “minuscolo” dell’uomo, il “grande” di ciò che lo circonda e “l’infinito” che sta oltre l’orizzonte.

La nostra presenza metafisica al centro di un personale sentimento che entra a far parte di un “tutto” armonico, un completamento spirituale che dovrebbe essere l’unico grande obbiettivo di una vita che altrimenti continuerebbe a cercarne il senso.

nell'immagine: Pierpaolo Vici - Bagan-Angkor (La radura) 2019 - Collezione privata


sabato 13 novembre 2021

L'altra metà del cielo perennemente oscurata

Le donne e l’arte, se volgiamo lo sguardo indietro nel tempo constatiamo che se c’è un’anomalia è senza dubbio l’assenza (o quasi) delle donne nell’ambito artistico.

Niente di nuovo purtroppo, si tratta di un dato conosciuto ma che non impedisce di fare alcune considerazioni.

E’ innegabile che nel complesso la donna rispetto all’uomo ha una profondità “sentimentale” che emerge maggiormente, ha una sensibilità maggiore (o quantomeno non si vergogna a mostrarla) una capacità di ragionare razionalmente (al contrario dell’uomo che tende a lasciarsi sopraffare dall’istinto) che non le impedisce di aprirsi alla fantasia e soprattutto alla poesia.

Per carità non voglio fare, come si dice, “di tutta l’erba un fascio”, conosco uomini artisticamente eccelsi e donne al cui confronto un sasso è l’espressione del più alto pensiero, ma non possiamo negare che il concetto “arte” nella sua accezione più ampia sia probabilmente femminile più che maschile, se proprio vogliamo essere salomonici mettiamo entrambi sullo stesso piano, ma la considerazione a cui accennavo prima va comunque fatta.

Perché, considerando quanto detto, le donne nella storia dell’arte sono pressoché invisibili? La cultura secolare maschilista è la risposta ovvia e inequivocabile, nel passato vi era una chiusura totale alle donne, nel presente, nonostante i passi avanti, le porte non si sono ancora aperte, consideriamole socchiuse.

Non è mia intenzione fare un trattato di sociologia, lasciamolo a chi ne ha le competenze, mi chiedo solo cosa abbiamo perso nei secoli a causa di tutto questo?

A fronte di migliaia di artisti maschi, che hanno dato vita alla meraviglia dell’arte, le donne si contano sulle dita di un mano o poco più, da Artemisia Gentileschi a Frida Kalho, da Sofonisba Anguissola a Tamara de Lempicka, Berthe Morisot, Fede Gallizia, Susan Valadon, Angelika Kauffmann, fino alle contemporanee Abramovic, Shermann o Kusama.

Ci sono naturalmente altri nomi che però sono conosciuti dagli appassionati, per il resto sono tutti o quasi relegati in secondo piano, i testi di storia dell’arte spesso li ignorano.

Quello che vale per la pittura vale a maggior ragione per la letteratura e la poesia. Qualcuno può obbiettare che la musica dagli anni settanta del secolo scorso ha aperto alle donne più di quanto abbiano fatto le altre “arti” ma se andiamo a vedere con attenzione, a parte alcuni casi di grandi musiciste, l’aspetto femminile emerge, soprattutto nel Pop, come esibizione “fisica” più che artistico-musicale, tutto dunque al “servizio” di un pubblico maschile.

Al netto di donne cerebralmente  inferiori ai sassi (e a quanti uomini messi anche peggio) il panorama artistico è tutt’ora sbilanciato, ci siamo persi secoli di capolavori femminili caduti nell’oblio per questioni culturali, facciamo in modo che la bilancia torni ad essere in equilibrio, ne abbiamo estremamente bisogno.


nell’immagine: Élisabeth Vigée Le Brun, Autoritratto con tavolozza, 1782, National Gallery, Londra


sabato 6 novembre 2021

Deviazioni, le strade del mercato dell'arte

“Il mercato dell’arte oggi è truccato da valori che non tutti condividono, siamo proprio tutti d’accordo che il teschio ricoperto di diamanti di Damien Hirst valga veramente cinquanta milioni di sterline?

Siamo tutti d’accordo che un semplice calco di una scultura classica, a cui viene aggiunta una sfera, possa valere milioni di dollari?”

(Salvatore Settis)

Questa riflessione dello storico dell’arte calabrese mette in evidenza lo sbilanciamento del mondo dell’arte in favore della speculazione ai danni dell’arte stessa.

Ad avvalorare questa preoccupazione, o perlomeno ad assecondare i dubbi di Settis, ci sono le parole di Alessia Zorloni, economista, docente universitaria, personaggio di spicco nel mercato dell’arte, che in più interviste ha sottolineato “quando vado ad una fiera seguo sempre il mio istinto, se qualcosa non mi piace al primo sguardo non perdo tempo ad approfondire, passo oltre, se invece mi piace allora inizio una mia personale ricerca”.

Se si trattasse di un appassionato, di un collezionista, questo metodo potrebbe anche andare bene, ma quando a parlare in questi termini è una persona che “dirige” il mercato, ne influenza le tendenze, ecco che le storture vengono a galla.

Poi ecco l’intervista a Ilaria Bonacossa, direttrice di Artissima, la fiera d’arte di Torino, che a sua volta capovolge ciò che afferma la Zorloni, Bonacossa sottolinea quanto sia importante, per i collezionisti e per tutte quelle figure che ruotano attorno all’arte contemporanea un determinato comportamento: “raccomando a tutti di fermarsi ad approfondire e riflettere davanti ad un’opera che al primo sguardo non ci piace è in questi casi che si scopre la grande arte, certo i colpi di fulmine non vanno esclusi ma spesso i grandi amori nascono e crescono con il tempo”.

Pareri contrastanti che ci mostrano quanto l’arte, e in particolare il mercato dell’arte, siano fondati su concetti soggettivi, chi si limita a ciò che piace, chi si affida (spesso con eccessivo ottimismo) al proprio intuito, chi invece decide di andare in profondità.

Quale sia il mio “orientamento” è facile intuirlo (anche se fondamentalmente non è di grande importanza) ma questo non toglie che ogni pensiero, ogni visione non debbano mai essere esclusi anzi, sono quella fonte di informazioni alla base della nostra e altrui crescita.


Nelle immagini, in alto: Damien Hirst - For the love of God.  In basso: Jeff Koons - Gazin Ball (Torso del Belvedere)