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martedì 29 dicembre 2020

la resistenza dell'arte nell'anno più difficile.

Artribune, la nota rivista dedicata all’arte e alla cultura contemporanea, come di consueto alla fine di ogni anno, pubblica il suo "Best of" premiando tutto ciò che ha dato un contributo importante all'evoluzione dell'arte.

Tra le varie voci (artista emergente, artista affermato, miglior fotografo ecc.) ha catturato la mia attenzione il miglior nuovo museo, il riconoscimento è andato al PART (nuovo museo d'arte moderna e contemporanea) di Rimini.

Mi ha colpito perché, in un anno complicato per tutti e di conseguenza per il mondo dell'arte, il museo riminese ha dovuto affrontare, sconfiggendole, le difficoltà di chi vuole iniziare un percorso ma che già prima dell'inaugurazione si deve fermare.

Rinviata appunto l'inaugurazione prevista in primavera, a settembre è riuscita a prendere il via per poi frenare a novembre per i problemi che purtroppo conosciamo tutti.

Nonostante questo l'impatto del museo sul mondo dell'arte contemporanea (Rimini ha un bagaglio storico-artistico immenso e un centro d'arte moderna e contemporanea era ciò che mancava per chiudere il cerchio) è stato fondamentale.

Ora non ci resta che aspettare che le opere donate dalla collezione della Fondazione San Patrignano tornino alla libera "visualizzazione" del pubblico.


domenica 27 dicembre 2020

Perché?

Spero di non essere frainteso ma c’è una cosa che mi lascia particolarmente perplesso: faccio fatica a comprendere come un pittore come Van Gogh susciti tanto interesse e ammirazione anche in chi non è appassionato d’arte.

Con questo non voglio sminuire l’artista olandese anzi, sono convinto che si tratti di uno dei più “alti” livelli raggiunti dalla pittura nel novecento e non solo.


Vincent Van Gogh – Notte stellata, 1889 - Olio su tela, cm. 73,7 x 92,1 - Museum of Modern Art (MoMA) New York


Normalmente chi non è un amante dell’arte tende ad appassionarsi a dipinti esteticamente gradevoli dove l’equilibrio dei colori e delle forme crea un’armonia capace di trasmettere un benefico senso di serenità, oppure dove la tecnica eccelsa trasmette emozioni che l’osservatore sente proprie (un esempio il “Bacio” di Hyez).

Un placido e rassicurante senso estetico non è certamente il bagaglio principale delle opere di Van Gogh, se ignoriamo la “profondità” concettuale è difficile considerare semplicemente belle le sue opere.

E’ innegabile che le “mode” influiscono e non poco ( la “Monna Lisa” ne è l’esempio più lampante,  ma lo stesso discorso potrebbe valere per Klimt anche se si limita prevalentemente ad un solo dipinto) e spesso convogliano, più o meno consciamente, i gusti della gente.

Le opere di Van Gogh sono qualcosa di più grande dell’essere semplici quadri, sono la testimonianza di un percorso di vita, sono lo specchio dell’anima, sono il buco nero che “divora” tutto ciò che ci è più caro. Spesso sono considerate semplici decorazioni, oggetti che completano l’arredamento, è questo che mi lascia perplesso, cosa c’è di “decorativo” nelle opere del grande Vincent?

Il fatto che siano cosi amati, cosi ricercati, mi fa molto piacere, significa che lo sguardo va oltre l'esteriorità, ma in un’epoca dove prevale l’estetica a scapito dell’approfondimento tutto ciò mi disorienta.

“Notte stellata” per molti è semplicemente bello ma quanti si fermano a chiedere e a chiedersi cosa siano quelle “onde” spiraleggianti”, cosa rappresentano gli incandescenti globi che tutti noi interpretiamo come semplici stelle.

La “forma” scura che dal basso striscia verso il cielo viene semplicemente considerata un albero, il paesaggio illuminato dalla luna appare placidamente e serenamente addormentato … appare appunto.

Il male oscuro che si insinua nel cuore e nella mente di Van Gogh è il protagonista del dipinto, l’incubo interiore esce e al contempo penetra la tela, difficile considerare quest’opera solo esteticamente bella.

Se confrontiamo i ritratti, i paesaggi, i fiori, di Van Gogh con altre opere con gli stessi soggetti ci accorgiamo che la bellezza “esteriore” è più evidente in altri quadri.

Ci tengo a sottolineare il termine “esteriore” perché l’apparire da sempre domina sull’essere, a maggior ragione negli anni duemila dove apparire è fondamentale, quasi l’unica cosa che conta veramente.

Il mio ragionamento, che sa di presunzione, parte proprio da questo dato di fatto, l’aspetto esteriore cancella ogni altra peculiarità, nell’epoca dei selfie “ritoccati” quello che siamo dentro non interessa a nessuno.

Da qui nasce la mia perplessità riguardo al successo di Van Gogh, naturalmente ho chiesto in giro “perché vi piacciono le opere del pittore olandese considerando che l’arte in generale non vi interessa”? La risposta è: “perché sono belle”.

Non voglio affermare che le risposte ricevute non siano veritiere, ma, proprio perché dicono la verità continuo a non capire …


sabato 19 dicembre 2020

Lo scontro e l'incontro, Robert Motherwell

 

Autore:   Robert Motherwell

(Aberdeen Washinton, 1915 – Cape Cod, 1991) 

Titolo dell’opera: Elegia per la repubblica spagnola 110, 1971

Tecnica: Acrilico, grafite, carbone su tela

Dimensioni: 208,3 cm x 289,6 cm

Ubicazione attuale:  Solomon R. Guggenheim Museum, New York




Violento, disarmonico, sgraziato, il dipinto colpisce con rara intensità, un pugno nello stomaco, ci scuote e ci lascia disorientati.

Questa grande opera fa parte di una lunga serie che ricorda costantemente la morte presente nei sanguinosi anni della repubblica spagnola.

Motherwell non ha mai preso una posizione politica, si limita a sottolineare “ il mio privato insistere sulla morte che accade e non può essere dimenticata”.

Le interpretazioni nel corso degli anni si sono sbizzarrite passando dagli immancabili “riferimenti sessuali” (sembra che certa critica non riesca ad andare oltre) o ad un più interessante accostamento allo scorrere delle note musicali.

Il titolo, dato dall’autore, non lascia molto spazio alle eventuali interpretazioni, resta aperto, per l’osservatore, il piano emotivo, oltre l’estetica c’è la presenza psicologica.

Pur non ignorando l’intenzione del pittore americano torniamo al punto di partenza, davanti a questo quadro come ci poniamo? E’ difficile affrontarlo con serenità, con un piacevole sguardo d’insieme, ne veniamo investiti, travolti, la reazione è di difesa, si va dalla fuga ad un attacco verbale che però ne sminuisce il valore concettuale che a sua volta ne limita il puro aspetto esteriore.

Ma se riusciamo a resistere al desiderio immediato di fuggire dinnanzi al dipinto ecco che ne riceviamo la forza, quella che ci sembrava un’aggressione “visiva” può, se abbiamo la voglia di confrontarci, trasformarsi in uno scambio di “idee”.

Cercando un appiglio più “realista” ecco che la sequenza si mette in moto, ciò che non riusciamo a comprendere inizia un lento ma inesorabile movimento, se lasciamo che il flusso segua il proprio percorso il movimento si farà via via più veloce, se al contrario blocchiamo lo sguardo focalizzando l’attenzione sul particolare, inseguendo un immaginario messaggio criptato, tutto si cristallizza, la migrazione si interrompe e l’opera ci frana addosso riproponendo la sensazione iniziale, lo smarrimento davanti all’assenza, apparente, di grazia e armonia.  

sabato 12 dicembre 2020

Gli albori del mito, Amedeo Modigliani

Si tratta di uno dei primi lavori di Amedeo Modigliani giunti fino a noi, la tela è dipinta su entrambi i lati (le ristrettezze economiche spingevano spesso i pittori ad utilizzare entrambe le facciate della tela).



Poco più che ventenne Modigliani era giunto a Parigi da un anno e realizza questi dipinti attorno al 1907-08.

La parte anteriore del quadro ci propone “Busto di donna nuda”, che evidenzia l’incontro con le opere di Toulouse-Lautrec, l’interpretazione del soggetto ci riporta alle figure meste e trascurate del pittore francese.

Il volto spigoloso, il trucco pesante, l’aria di trasandata rassegnazione contrastano e al contempo vengono messe in risalti dal rosso accesso del rossetto e dalle palpebre viola.

Le spalle cadenti e il pallore del busto completano una scena che gli artisti parigini dell’epoca avevano già raccontato, in particolare riferendosi alle “case d’amore”  molto frequentate da molti uomini, artisti e non.

Modì non aveva dato un titolo al dipinto e alla prima catalogazione venne nominato “Nudo di donna con cappello”, ma attente osservazioni hanno fatto notare che il presunto copricapo non era tale, sembra invece più verosimile un tentativo del pittore livornese di modificare lo sfondo, dal grigio azzurro dell’intero quadro ad un grigio e nero, cosa abbia fermato Modigliani non lo sappiamo.

Il lato posteriore del quadro cambia completamente la visione del soggetto, il ritratto ha un nome, si tratta di Maud Abrantès, la giovane donna che accompagnava Modigliani nel 1907, definita da Paul Alexandre, il medico che sostenne artisticamente e materialmente Modigliani nei primi difficili anni parigini, “Donna di estrema eleganza”, buona disegnatrice che apprezzava particolarmente le discussioni di letteratura, poesia e arte che si tenevano nei frequenti incontri tra gli artisti emergenti dell’epoca.

Il ritratto però ci racconta di una donna profondamente infelice, ferita, gli occhi si perdono  lontano, ad emergere una sensazione di malinconica sconfitta, di rassegnazione.

Un’idea possiamo farcela ricostruendo un episodio che in fondo potrebbe svelarci la profonda inquietudine del volto nel dipinto ma che potrebbe essere la stessa sensazione provata dal pittore.

Nel 1908 Maud, in attesa di un figlio, probabilmente dello stesso Modigliani, si imbarca su un transatlantico diretto negli Stati Uniti, prima dell’arrivo in America manda un breve messaggio a Paul Alexandre: “Domani arriviamo. Leggete ancora Mallarmé? Non so dirvi quanto mi mancano le incantevoli serate che abbiamo trascorso insieme, attorno al vostro caminetto. Che bel periodo!”.

Da quel momento di Maude Abrantès non si seppe più nulla.

Il quadro (olio su tela di cm. 80,6 x 50,1) è custodito all’università di Haifa all’interno del Reuben and Edit Echt Museum.

sabato 5 dicembre 2020

Il ritratto moderno, Philippe Parreno, Douglas Gordon

Spaziando tra le opere di Philippe Parreno e la mia attenzione ci concentra su un ritratto che esula da ciò che noi intendiamo come ritratto nell’arte.

Parreno, artista francese che sviluppa la propria idea artistica svariando dal disegno alle performance, da gigantesche installazioni a realizzazioni video, con Douglas Gordon, acclamato vidoartist , realizzano un’opera che non è totalmente originale (una cosa simile venne fatta nel 1970 dal regista tedesco Hellmuth Costard con finalità diverse) ma che è unica in quanto opera d’arte.

Il film, dal titolo “Zidane, un ritratto del 21˚secolo”, ci mostra l’eroe moderno per eccellenza, il calciatore in azione durante un incontro di calcio.

Siamo nell’aprile del 2006, lo stadio Santiago Bernabeu di Madrid vede in campo la squadra di casa, il Real Madrid e il Villareal, l’obbiettivo dei due artisti è la stella madridista  Zinedine Zidane.

7 telecamere ad alta definizione seguono per l’intera durata dell’incontro il giocatore francese, si svaria tra primi piani del viso, delle gambe, delle scarpe, ad inquadrature più o meno particolareggiate, la panoramica dell’azione quando Zidane è in possesso della palla alle smorfie di dolore, agli sguardi concentrati fino alle gocce di sudore che ne imperlano la fronte.

Perché questo film è diverso da quello che 36 anni prima realizza Costard?

Allora l’idea del regista tedesco era quella di seguire per novanta minuti il calciatore del Mancester United George Best, la differenza sta nel fatto che Costard realizza il video con un’intenzione puramente giornalistica, voleva (per quel tempo si tratta di qualcosa di rivoluzionario) raccontare le gesta tecniche del fuoriclasse inglese.

Parreno e Douglas hanno un obbittivo diverso, ne fanno a tutti gli efetti un’opera d’arte, un ritratto, in un’epoca entrata nell’era del “grande fratello” i due vogliono andare oltre la raffigurazione statica del calciatore (tipica del ritratto) ma vanno ulteriormente al di là anche da mero aspetto tecnico, cercano un insieme unendo l’atleta, l’uomo e l’eroe moderno.

Il video è stato proiettato in molti musei in tutto il mondo, un esempio la Tate Modern nel 2018,consacrandolo come creazione artistica scollegata dall’arte cinematografica (particolare che pare insignificante ma che fa la differenza, non tanto in materia di merito ma come definizione artistica).

Il risultato, al di là dei gusti personali, è interessante, il confine su cui è poggiato vede da una parte la semplice (con gli occhi di oggi) telecamera personalizzata, cosa per altro comune nel 2020, dall’altra un’opera creativa che possiamo definire d’arte per due concetti precisi, naturalmente il ritratto, seppur visto con lo sguardo della contemporaneità e l’opera d’arte in quanto decisa dall’artista.

Quest’ultimo è un pensiero nato più di un secolo fa, ma questa è un’altra storia.


sabato 28 novembre 2020

Figli di sé stessi

Normalmente una canzone viene pubblicata, percorre il suo cammino, più o meno glorioso e solo in seguito, quando il brano raggiunge un certo successo, ecco nascere un numero più o meno elevato di cover.

Ma in questo caso non andò cosi, da un brano ne nacque un altro tanto che entrambi brillano di luce propria.

Sto parlando di “Valery” cantata da Alfredo Cohen (testo dello stesso Cohen, musiche di Battiato e Giusto Pio) e di “Alexanderplatz” eseguita da Milva (musicata da Pio mentre il testo è stato riadattato da Franco Battiato).

Nel 1979 prende vita “Valery”, Alfredo Cohen (Alfredo D’Aloisio) la dedica a Valérie Taccarelli, una giovane transessuale allora impegnata, con lo stesso Cohen, nella lotta ai diritti omosessuali e transgender.

Il testo di delicatamente poetico è una personale dedica che il cantante di Lanciano fa alla sua musa, la stessa Taccarelli che visse per un certo periodo nella casa di Cohen disse che visto il disordine che regnava nell’abitazione iniziò a prendersene cura, viene naturalecollegare la vicenda con le parole del brano, “Ti piace di più lavare i piatti, fare i letti, poi startene in disparte come vera principessa prigioniera del suo film, che aspetta all’angolo come Marlene”, strofa che viene riproposta interamente anche in “Alexanderplatz”, ma che senza la conoscenza di “Valery” e di ciò che le ha dato vita, appare senza un senso logico.

Tre anni dopo l’uscita del brano di Cohen, che non ha avuto il successo che forse meritava, Battiato progetta un cambiamento, dopo aver chiesto il permesso a Cohen (che a sua volta lo chiede a Valérie) modifica testo e musica (in particolare aggiunge il favoloso ritornello) e completa l’opera consegnando il tutto alla voce di Milva.

Il risultato è innegabilmente ottimo, la voce della “pantera di Goro”, aggiunta alla sua eleganza vocale e non solo, danno vita ad una canzone di grande presa, cosi come Cohen è riuscito a trasmettere l’intimità paterna nei confronti della giovane Valérie, Milva porta l’ascoltatore nelle cupe e fredde serate berlinesi negli anni del "muro".

Una canzone, due canzoni, è impossibile ascoltare l’una senza pensare all’altra ma al contempo l’ascolto dei due brani ci conduce a due realtà differenti.

Con il primo brano veniamo avvolti da una malinconica brezza poetica, nel secondo siamo travolti dal vento impetuoso delle vocalità di Milva senza per questo rinunciare alla poesia.

Sono convinto che per apprezzare appieno “Alexanderplatz” sia necessario ascoltare con attenzione “Valery”, ma è con la stessa convinzione che la cosa valga anche al contrario.  




sabato 21 novembre 2020

Spiritualità e materia, realtà e simbologia, Franz Marc

 

Autore:   Franz Marc

(Monaco, 1880 – Verdun, 1916) 

Titolo dell’opera: Piccoli cavalli gialli, 1912

Tecnica: Olio su tela 

Dimensioni: 66 cm x 104,5 cm

Ubicazione attuale:  Staatsgallerie, Stoccarda

 


Tre cavalli occupano la quasi totalità della tela, le tre sinuose figure sembrano intrecciarsi quasi a creare un tutt’uno, lo spazio lasciato libero dagli animali è però sufficiente per mostrarci un paesaggio collinare dove sullo sfondo, oltre le due case appena abbozzate scorgiamo il blu del cielo.

I tre cavalli sembrano però staccarsi dal contesto paesaggistico, sono in primo piano mentre lo sfondo prende le sembianze di un pianeta lontano, questo rende tutto più aulico, raffinato, elevato (ecco che ritorna la spiritualità).

Nonostante la rappresentazione equestre che si palesa al primo sguardo è il colore il tema predominante del dipinto.

Il giallo che simboleggia l’elemento "passivo" femminile, il rosso dei fianchi richiama la sensualità, questi colori caldi si contrappongono al blu spirituale dello sfondo.

La teoria del colore di Kandinskij in “Lo spirituale dell’arte”, che oltre alla grande amicizia condivide con Marc la genesi del gruppo “Der blauer reiter” (il cavaliere azzurro) pone il giallo proprio in contrapposizione col blu dove l’essenza materiale del primo contrasta con la spiritualità del secondo.

La sensualità femminile, l’essenza stessa della femminilità e dell'elevazione mistica, prendono strade differenti ma fanno parte dello stesso impianto, l’unione delle due espressioni raggiunge un equilibrio nelle criniere delle giumente.

Nulla è per caso, il verde delle criniere nasce dalla fusione dell’emozione fisica con la visione trascendentale, dando vita ad un equilibrio più o meno stabile simboleggiato dal verde, frutto della "mescolanza" tra il giallo e il blu.

I cavalli sono sempre stati la passione di Marc, questi animali lo hanno accompagnato fino all’epilogo della sua breve esistenza, arruolatosi volontario allo scoppio della prima guerra mondiale nel 1916 viene esentato per meriti artistici, dagli incartamenti militari l’ultimo giorno di servizio mentre svolge il proprio compito di ricognitore a cavallo viene colpito da alcune schegge di granata, a trentasei anni, muore sul colpo vicino al proprio cavallo, una figura che lo aveva accompagnato nel suo breve, seppur intenso, percorso artistico.

sabato 14 novembre 2020

La faticosa ascesa dell'arte, Frank Auerbach

 

Autore:   Frank Auerbach

(Berlino, 1931 ) 

Titolo dell’opera: J.Y.M. seduta nello studio IV- 1988 

Tecnica: Olio su tela 

Dimensioni: 56 cm x 51 cm 

Ubicazione attuale:  Collezione privata



La modella abituale, la musa che ha posato per moltissimi dei ritratti realizzati da Auerbech, è la protagonista dell’opera, Juliet Yardley Mills, questo è il nome della donna, è al centro del dipinto pur senza essere palesemente presente.

Lo stile del pittore berlinese è alquanto evidente, spesse pennellate di colore si “abbattono” sulla tela apparentemente senza un criterio preciso ma raggiungendo un chiaro obbiettivo.

Di fronte a quest’opera, ma lo stesso vale per molti altri dipinti di Auerbach, è difficile provare un senso di piacevolezza, lo sguardo si avvicina con estrema fatica, quasi con uno sforzo fisico, una fatica visiva e concettuale.

Tutto sembra scivolare all’interno del quadro, la figura è seduta (l’indicazione del titolo è fondamentale) non capiamo su cosa e non comprendiamo se le mani reggono qualcosa o meno, la scena è tutt’altro che immobile, niente se ne sta al suo posto per più di qualche istante, se ci limitiamo a guardare il quadro, l’insieme si cristallizza ma nel momento in cui ci lasciamo trasportare dal pennello dell’artista ecco che nasce il movimento.

Gli spessi strati di colore rallentano la nostra “visione”, un lento avanzare, quasi riluttante ci porta nella profondità del dipinto per poi accorgerci di esserci arrivati sfiancati da tanta difficoltà.

E’ un’interpretazione claustrofobica, si viene attirati da ciò che ci allontana, lo sforzo di raggiungere quello che in fondo non volevamo raggiungere. Ma alla fine comprendiamo che, indipendentemente dal risultato emozionale, non c’era altro da fare.

sabato 7 novembre 2020

Vero o falso? l'improbabile Bouguerau

 Il web, i numerosi social, siti più o meno specializzati, blog e tutto quello che la “rete” ci offre, hanno permesso a chiunque l’accesso ad una mole infinita di informazioni.

La cosa naturalmente è positiva, abbiamo l’opportunità di essere informati con la possibilità di confrontare le varie opinioni e costruire cosi un nostro pensiero critico.

Ma nel mare di nozioni, parole e immagini, in cui siamo immersi, non tutto ha il crisma della verità, sono molte le informazioni errate se non addirittura inventate di sana pianta.

Nel mondo dell’informazione artistica, ci imbattiamo quotidianamente in notizie che portano il lettore completamente fuori strada, tra queste le più gettonate sono le attribuzioni, inventate, di dipinti più o meno interessanti (non è questo il punto) ad artisti famosissimi.

Opere di dubbia qualità attribuite a Van Gogh, altre di qualità maggiore assegnate a Klimt, Schiele o Gauguin, non parlo di copie falsificate, in quel caso solo degli esperti (e nemmeno loro spesso riescono nell’intento) riescono a smascherare la truffa, ma semplicemente di dipinti di uno sconosciuto pittore attribuiti all’artista più famoso.

Uno dei casi più eclatanti è sicuramente “Aphrodite” di Bouguerau che naturalmente di Bouguerau non è, il problema è che non si tratta nemmeno di un dipinto ma di un’elaborazione digitale realizzata nel 2006 da Askar (Alexander T. Scaramanga) intitolata appunto “Aphrodite 010”.

L’errore è dietro l’angolo ed è facilissimo caderci, per questo motivo dobbiamo prestare attenzione, evitare di accontentarci della prima informazione che ci viene offerta dal motore di ricerca, è fondamentale cercare affidandoci a siti specializzati, i vari musei e gallerie offrono informazioni precise e attendibili.

Oltre alle pagine web non vanno trascurati i testi scritti, nonostante l’errore sia sempre possibile ci sono molti luoghi dove possiamo trovare informazioni veritiere.

C’è un ulteriore problema da affrontare davanti a queste “falsificazioni”, spesso chi pubblica, ma succede anche a chi semplicemente condivide (più o meno consco dell’errore) rifiuta categoricamente l’idea che quello che propone sia falso, capita che a chiunque, davanti ad una notizia falsa, cerchi di correggere il tiro, venga chiesta una prova di ciò che afferma, negando l’idea che a provare la veridicità sia compito di chi rende pubbliche certe informazioni.

sabato 31 ottobre 2020

Il filo conduttore, Clyfford Still

 Autore:   Clyfford Still

(Grandin, 1904 – New Windsor, 1980)

 Titolo dell’opera: Quadro 1944-N nr.2, 1944

 Tecnica: Olio su tela

 Dimensioni: 264,5 x 221,5 cm

 Ubicazione attuale:  Museun of Modern Art (MoMA) New York



Particolarmente complesso questo dipinto è tra i primi esempi di espressionismo astratto, un ideale collegamento tra le idee surrealiste legate alla “pittura automatica” e la corrente artistica americana che segna un passo fondamentale per l’arte contemporanea.

Tipico dello stile di Still questo quadro presenta una quasi totale superficie dal colore nero applicato con la spatola e ripreso con la lama di un coltello, lo sfondo monocromatico è attraversato da “lampi” orizzontali e verticali rossi, gialli, bianchi e in fondo a destra una fusione cromatica tra i verde e il blu.

Il pittore statunitense libera l’opera da ogni riferimento “reale” riconoscibile, questo gesto serve per allontanarsi sempre più dalla contaminazione dell’arte europea cercando cosi una nuova strada, una nuova espressione artistica puramente americana.

Il dipinto dunque come rappresentazione di se stesso (questo però ci dimostra quanto sia impossibile staccarsi completamente dalle influenze esterne in quanto la definizione “il quadro non rappresenta il soggetto espresso ma è la rappresentazione di sé stesso” è dell’artista europeo Kandinskij) o più precisamente è l’emblema del gesto pittorico che va oltre ciò che vediamo.

La complessità nella lettura delle opere di Still è amplificata dalla difficoltà di comprendere le stesso pittore, Still ha sempre cercato nuove vie scegliendo il disprezzo verso il mondo artistico newyorkese evitando di esserne contaminato.

Come già sottolineato in precedenza non possiamo chiudere le porte alle “esperienze” altrui che provengono da altre parti del mondo e da periodi storici passati, per questo motivo, pur mostrandoci una concezione innovativa, Still si erge a filo conduttore tra l’esperienza visionaria dell’arte europea del primo novecento e l’idea altrettanto utopistica della nascente generazione artistica americana.


sabato 24 ottobre 2020

I codici d'accesso dell'arte, Andy Warhol

Faccio sempre molta fatica a “seguire” le opere di Andy Warhol, altrettanto complessa è la comprensione dell’insieme artistico, del concetto di base che ha scatenato un’autentica rivoluzione culturale.

Da sempre i lavori dell’artista di Pittsburgh non riescono a “prendermi”, ne esteticamente ne nel profondo dell’idea, questo mi spinge da molto tempo a capire il perché, ho letto molte biografie, ho ascoltato svariate dichiarazioni e interviste, dello stesso Warhol e di chi lo ha conosciuto ma il senso non mi è mai stato chiaro.

Finché un giorno, leggendo una biografia firmata da Francesca Romana Orlando, mi sono imbattuto in una frase, attribuita a Marcel Duchamp, che ai miei occhi ha svelato  quello che è la base dell’arte di Warhol: “Quello che mi interessa di Warhol non sono i barattoli Campbell in sé ma il tipo di mente che deciderebbe di dipingere i barattoli Campbell senza fine”.

Ancora una volta mi rendo conto che l’arte è tutto tranne che l’immediatezza visiva, spesso non è sufficiente nemmeno conoscere le principali “nozioni” di un’opera, non bastano il piacere o il fastidio che proviamo quando la osserviamo, e non basta conoscere la vita dell’artista e tutto ciò che ha influito alla sua crescita, umana e artistica, serve quella scintilla che apre ad una comprensione più profonda, l’indicazione della strada da seguire.

Naturalmente, essendo Warhol parte integrante di quel movimento, il “New Dada”, che verte inequivocabilmente al concetto sopra tutto e tutti, avevo intuito che la via da seguire era questa ma non sapevo dove iniziare e come procedere.

Chi mi conosce sa quanto io sia legato all’idea artistica di Duchamp e di conseguenza il rischio di subirne l’influenza è alto ma se questo aiuta a comprendere perché non provare?

Non so a cosa porterà questo ennesimo percorso ma il solo fatto di iniziare il viaggio è elettrizzante.

Probabilmente continuerò a non apprezzare a fondo le opere di Warhol ma spero quantomeno di scoprire quei lati più in ombra che servono a decodificare un codice sempre più complesso.


Nell’immagine: Andy Warhol – Dick Tracy, 1860 - Caseina e pastello su tela, 121,9 x 83,9 cm.

The Brant Foundiaton, Greenwich


sabato 17 ottobre 2020

La realtà e i media, Johan Grimonprez

 Partendo da uno spunto all’interno di un più elaborato testo di Angela Vettese, cerco di comprendere l’analisi artistica contemporanea dal punto di vista, innegabilmente contaminante, dei media.

Nel 1997,in anteprima al Center Pompidou di Parigi, viene pubblicato il video-art-document dell’artista belga Johan Grimonprez “Dial H.I.S.T.O.R.Y.”, il film è realizzato interamente con il sistema “found foottage”.

Il video racconta la storia dei dirottamenti aerei con un montaggio che incorpora i filmati d’epoca, le conferenze stampa, i servizi giornalistici, a questo si aggiungono parti di testi letterari e spezzoni di film di fantascienza.

Di quest’opera, dalla durata di 68 minuti, mi ha colpito la sequenza dei disastri aerei mostrati con un sottofondo musicale che esula dal contesto, una base sonora rilassante che nulla ha a che fare con le scene cruenti del video, semmai più consona alle sale d’attesa o ai centri benessere, tutto questo ci mostra come i media possono manipolare la realtà veicolandola verso lo spettatore nella forma che più fa comodo, la forma dunque che cancella la sostanza.

La realtà filtrata dal sistema mediatico non è più quella che accade ma la sua interpretazione che spesso muta fino a sovvertirne totalmente i canoni di partenza.

L’arte come forma di denuncia, d’altro canto dopo secoli di commissioni nobiliari o strettamente ecclesiastiche, dove l’artista non poteva fare altro che compiacere chi paga, il novecento offre all’artista l’opportunità di sganciarsi (là dove lo desidera) da chi “finanzia” i lavori portando avanti le proprie convinzioni, i propri ideali.

Anche questo (o forse soprattutto) è la vera innovazione dell’arte contemporanea.

E’ indubbio che anche un’opera di protesta è filtrata dal pensiero dell’artista ma è altrettanto evidente che il punto di vista di partenza è ben delineato.

sabato 10 ottobre 2020

La percezione al di sopra della certezza.

 I detrattori dell’arte contemporanea sostengono che non siamo più in grado di distinguere l’opera d’arte da un banale oggetto di pubblico utilizzo (l’esempio ricorrente è il paio di occhiali da sole spacciati per scherzo per opera d’arte o un comunissimo estintore, dotazione di sicurezza in un qualsiasi museo).

Voglio capovolgere il concetto, prima nessuno si sarebbe immaginato di scambiare per opera d’arte i suddetti occhiali o estintori, oggi questo può accadere, siamo sicuri che si tratti di un limite?

Non voglio dire che qualsiasi cosa vediamo sia arte ma il fatto che pensiamo possa esserlo significa che l’apertura mentale si è ampliata.

D’accordo si deve approfondire, “studiare”, comprendere, ma questo avviene solo dopo che abbiamo messo in discussione ciò che vediamo.

Senza una visione più ampia saremmo ancora legati alla scultura e alla pittura “realista”, abbiamo molta strada da percorrere ma il senso di marcia è quello giusto, non dobbiamo dare nulla per scontato, qualunque cosa incontriamo sul nostro cammino ha significati profondi, non è detto che li comprenderemo tutti ma è necessario pensare evitare qualsiasi etichetta, tutto è possibile, dobbiamo solo scoprirne i codici e lentamente la luce sostituirà, più o meno parzialmente, le inevitabili ombre.


nell'immagine: Alex Chinneck - Fire in the jelly

domenica 4 ottobre 2020

Ode alla bellezza

 

«La bellezza è indefinibile in quanto tale, la riconosci solo quando la incontri, è invasiva e pervasiva, nel senso che entra dappertutto, entra negli occhi di una donna, nel pelo di un gatto, in una nuvola che sfila davanti al sole, nell’emozione dell’arte e persino in una mattina di nebbia. Ed è pervasiva nel senso che entra dentro di te in qualche modo …»


A. Paolucci


(nell’immagine: Antonio Canova – Amore e Psiche, 1793. Scultura in marmo, 1,55 x 1,65 cm. Museo del Louvre, Parigi) 


sabato 3 ottobre 2020

L'oscillazione del pensiero, Alexander Calder


Autore:   Alexander Calder
(Philadelphia, 1898 – New York, 1975)

Titolo dell’opera: Trappola per aragoste e coda di pesce, 1939

Tecnica: Fili d’acciaio e lastre di alluminio dipinte

Dimensioni: 289,5 cm

Ubicazione attuale:  Museum of Modern Art, New York





Sospensione spaziale, la composizione fluttua nell’aria come se galleggiasse nell’acqua.

L’oscillazione continua, spinta o rallentata dallo spostamento d’aria causato da correnti o solo dal passaggio degli spettatori, richiama il lento ma costante movimento marino, la trappola per aragoste, il pesce stilizzato e la lisca di pesce, composta da nove elementi che si muovono indipendenti l’uno dall’altro, accompagnano il visitatore nelle profondità marine.

Calder libera la fantasia e la materia permettendo ad entrambe di muoversi liberamente, lo spazio non ha confini e tutto sembra agire senza alcun vincolo.

L’opera, eccellente esempio di arte cinetica, racconta della libertà di espressione, di visione e concetto ma la trappola per aragoste ci avvisa che nulla è scontato, dobbiamo saper apprezzare la libertà stessa e che quest’ultima va difesa con determinazione e intelligenza.