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sabato 28 marzo 2020

Essenza, assenza o presenza

A volte ci perdiamo nei nostri pensieri e ci lasciamo condurre dove l’inconscio desidera andare, apparentemente senza senso, un viaggio può condurre a mete illusorie dove ciò che ci appare non ha una logica, una spiegazione canonica.



Durante il mio “vagare” mi sono imbattuto nell’immagine di un’icona russa datata 1420-30 ad opera di Andrej Rublëv.

Il titolo, “Trinità”, non lascia spazio ad interpretazioni, è la raffigurazione di Dio nel suo essere assoluto.

Questo mi ha immediatamente spinto in avanti di cinquecento anni quando nel 1915 Kazimir Malevič realizza il celeberrimo “Quadrato nero su fondo bianco”, la rappresentazione di Dio nel suo essere assoluto.

Due immagini, all’apparenza, estremamente diverse tra loro ma concettualmente affini, entrambe “raccontano” l’esperienza spirituale del proprio tempo, l’incontro con il Divino, due visioni simili e al contempo lontane, la prima più diretta, la seconda più sofferta.



Cento anni dopo l’opera di Malevič, nel secondo decennio dall’inizio del nuovo millennio dove all’improvviso ci troviamo ad aprire gli occhi, a liberarci dall’inutile eccesso "materiale" che ci impedisce di guardare lontano, quale delle due visioni ci è più congeniale?

Indipendentemente dal credo religioso o dalla presenza o meno dello stesso, le due rappresentazioni si schierano su un fronte sostanziale opponendosi al vuoto spirituale degli ultimi decenni,  forse, ma è solo il mio pensiero, è proprio Malevič a fornirci un’indicazione (non cerchiamo una risposta certa, non l’avremo mai) l’essenza spirituale è là dove lo sguardo distratto non vede, solo con il desiderio di conoscenza possiamo stabilire un contatto.



Nelle due immagini, dall’alto:
Andrej Rublëv - Trinità, 1420-30   Tempera su tavola cm 142 x 114 Galleria Tret'jakov, Moscoa
Kazimir Malevič - Quadrato nero su fondo bianco, 1915  Olio su lino cm 79,5 x 79,5  Galleria Trer'jakov, Moscoa



sabato 21 marzo 2020

Quadri parlati e quadri parlanti


Maurice Merlau-Ponty, riferendosi alle parole, distingueva tra “le parole parlate e le parole parlanti”, se trasferiamo questo concetto nello spazio pittorico possiamo trovarci di fronte a dipinti che si guardano e dipinti che ci guardano?

Cezanne, riferendosi al monte Saint Victoire, sottolineava l’impossibilità di ritrarre la montagna in modo definitivo proprio perché era il monte stesso a presentarsi sempre in maniera differente, era dunque impossibile poterne fare un ritratto compiuto, ogni volta infatti la montagna trasmetteva sensazioni nuove, lasciando aperto un varco temporale.

Il confronto, il dialogo che il pittore, ma vale anche per l’osservatore, intavola con l’opera rende quest’ultima eternamente mutevole,  lo scambio, se sostenuto da basi solide, può continuare all’infinito.

Paul Klee lavorava spesso a più tele contemporaneamente, anche 12 o 13, ad un certo punto si fermava, si sedeva di fronte ai quadri e ascoltava, osservava, sosteneva infatti che “i quadri mi guardano”, sottolineando quanto fosse fondamentale la “parola” dei dipinti nella realizzazione degli stessi.

Naturalmente è diverso il dialogo che le opere hanno con l’artista rispetto al confronto con lo spettatore, con il primo collaborano a creare l’insieme, con il secondo discutono dell’eternità dell’arte.



Nelle immagini: sopra
Paul Cézanne: La Montagne Sainte-Wctoire (1904-1906) cm. 68 x 81 olio su tela, Zurigo Kunsthaus
sotto
Paul Klee :  Twitterin Machine, 1922.  cm 63,8 x 48,1  olio e inchiostro su carta,  Museum of Modern Art, new York



sabato 14 marzo 2020

Il realismo e il sogno di un'epoca senza fine, Andô Hiroshige


Autore:   Hiroshige Andô
(Edo, 1797 – Edo, 1858)

Titolo dell’opera: Chiaro di luna a Nagakubo

Tecnica: Legno policromo stampato su carta

Dimensioni: 22 cm x 34 cm

Ubicazione attuale:  Britisch Museum, Londra






Tre figure umane e quella di un asino avanzano lentamente e con difficoltà sul ponte di legno in lontananza, si notano solo le silhouette stagliate contro la luna piena che ne offusca l’immagine.

Contrapposte, sia in quanto limpidamente ritratte che cromaticamente più intense, vediamo altri personaggi in primo piano, qui sembra tutto più leggero, quasi comico, l’asino che sembra rifiutarsi di procedere e soprattutto la donna che cavalca un cane.

Nonostante l’artista giapponese metta in risalto le figure in primo piano sono i personaggi sul ponte che catturano l’attenzione, le ombre che si evidenziano nel contrasto con il cielo notturno ci appaiono più reali, più vicine alla difficile vita quotidiana.

Solo il grande albero al centro ruba il proscenio alle ombre che avanzano, mentre il fiume, rischiarato dalla luna in lontananza si fa sempre più scuro e intenso per poi dileguarsi in basso a destra, l’acqua fluisce lentamente ma costantemente dando l’impressione di uscire dal quadro.

Più giovane di Hokusai apprezzava lo stile del maestro ma ne ha dato una visione più moderna, liberando lo spazio di azione e ricreando, con i colori, un realismo fino ad allora messo in secondo piano.

Nonostante la distanza che c’era allora tra il Giappone e l’Europa, Hiroshige ha influenzato in maniera decisa la pittura occidentale, in particolare l’impressionismo ha attinto a piene mani alle stampe provenienti dal paese del sol levante, fra i tanti cito Monet che di queste stampe fu un collezionista tanto da inserire nei suoi dipinti le delicate opere orientali.

sabato 7 marzo 2020

La consolazione dell'anima, William Adolphe Bouguereau


Autore:   William Adolphe Bouguereau
(La Rochelle, 1825 – La Rochelle, 1905)

Titolo dell’opera: The Virgin of Consolation – 1875

Tecnica: Olio su tela

Dimensioni: 204 cm x 147 cm

Ubicazione attuale:  Musée des beaux Arts, Strasburgo






Bouguereau realizza quest’opera dopo la morte del figlio George e in seguito alla scomparsa della moglie Nelly.

Racconta il proprio dolore con due dipinti, questa Venere consolatrice e una successiva Pietà.

L’immagine di questo quadro è di una potenza esplosiva, la vergine assisa in trono sul cui grembo si adagia, affranta, una giovane donna in lutto, ai piedi il corpo senza vita di un bambino.

Ma la Madonna non appare come un’entità consolatrice, è immobile quasi in trance e rivolge lo sguardo altrove, oltre la nostra comprensione, va alla ricerca delle forze universali convogliandole sulla giovane donna, la Vergine è un tramite, non la soluzione.

Abituati alla rappresentazione di Maria come madre di tutti noi che si prodiga per i suoi figli, siamo spiazzati da questa immagine che riporta alla visione di un antico Dio che nulla può, o vuole, riguardo al corpo e che si concentra sul recupero dell’anima, la giovane madre disperata vuole riavere la vita del figlio mentre la Vergine sembra intensamente orientata verso un aspetto spirituale.

Bouguerau dunque si pone, e ci pone, la domanda cruciale che viene messa in evidenza nel rapporto tra l’uomo e il divino: “Perché Dio lascia che la sofferenza, il dolore, si accaniscano contro i suoi fedeli senza intervenire?

Perché lascia che la donna sprofondi nel dolore per la scomparsa del proprio bambino quando, dall’alto della sua potenza, potrebbe tranquillamente rimediare?
Domandi epocali naturalmente senza risposta, ma non è questo che l’osservatore vuole sapere, chi guarda il dipinto è spinto a interpretarne le infinite sfumature.

Tutto risulta freddo, oltre alla presenza immobile della Vergine è lo schema compositivo che rende la scena glaciale, i toni cromatici (che accompagnano la simbologia mariana e riporta la tela verso un’epoca artistica antica) e la prevalenza delle linee orizzontali e verticali che eliminano ogni “ondulazione” umana.

Assolutamente umani sono la giovane mamma e il bambino mentre il viso di Maria è forse il vero enigma del dipinto, un volto giovanile ma che nell’espressione non ha più nulla di giovane, una presenza divina che non può essere accostata all’essere irrimediabilmente mortale.