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sabato 29 febbraio 2020

L'arte è il "sentire" soggettivo?


«Qualsiasi cosa guardiate, anche se è inanimata risponde al vostro sguardo; in quel momento avviene qualche sorta di comunicazione a cui il vostro volto reagisce cambiando espressione».


Questo pensiero, espresso dall’architetto Daniel Libeskind, ci spinge ad una riflessione: siamo noi dunque a determinare l’incontro con ciò che ci circonda, questo vale per gli edifici (come sottolinea lo stesso Libeskin in quanto architetto) che possono sostenere il nostro sguardo o girarsi dall’altra parte.

Concetto che si accentua quando ci rivolgiamo alla “natura” che influisce sulle nostre percezioni in quanto “essenza vivente”.

Dopo questa “visione” come ci comportiamo davanti all’arte? E’ impensabile negare un coinvolgimento totale, anche se per qualcuno si tratta solo di “un quadro” o “una statua” è innegabile che cerchi di dirci qualcosa o forse siamo noi a spingere ciò che abbiamo di fronte a “parlare”.

Nell'immagine: Imperial War Museum North, Manchester - Daniel Libeskind

sabato 22 febbraio 2020

L'arte nell'epoca delle riproduzioni


E’ uno dei problemi maggiori da risolvere per un grande museo, soprattutto se ospita opere iconiche che attirano milioni di visitatori.
Si tratta dell’eccessivo affollamento di alcune sale che rallentano, quando non bloccano, l’afflusso degli innumerevoli appassionati.

In questi giorni sono apparsi alcuni articoli che esaltano la soluzione trovata dal Museo del Prado all'annoso problema delle lunghe code davanti al “Giardino delle delizie” di Hieronymus Bosh, soluzione definita addirittura “geniale”.
L’idea del museo spagnolo è quella di proiettare i dettagli del dipinto su degli schermi facendo in modo che l’osservatore arrivi davanti al dipinto avendo già contemplato le infinite  particolarità dell’opera e di conseguenza resti davanti al quadro per poco tempo.
In un’epoca dove la riproduzione viene equiparata all’originale questa proposta può anche essere accettata, o addirittura essere considerata geniale da chi segue l’arte in modo superficiale, gli appassionati che cercano il contatto non solo visivo ma intimo e spirituale con l’opera non possono accettare espedienti come questo che rendono praticamente inutile la visita al museo in quanto una riproduzione delle opere la si può trovare ovunque.
L’opera di Bosh, come qualsiasi altra opera d’arte, anche se apparentemente più semplice da vedere, necessita di tempo ma non può essere sostituita da video o riproduzione fotografiche anche se ad alta risoluzione.
Questo tipo di soluzione è improntata a mantenere alto il numero di visitatori, è un’idea che da priorità all’aspetto commerciale, permette di mantenere gli incassi facendo “scorrere” la fila, potrebbe addirittura aumentare gli ingressi.
Se invece pensiamo all’aspetto artistico e a un completo “incontro” tra il visitatore e l’opera non è questo il modo di procedere.
Non sembrano esserci alternative al numero chiuso, visite prenotate che permettono a un gruppo circoscritto di persone di godere del dipinto evitando lunghe file, vanno dilatati gli orari in cui è possibile osservare il capolavoro di Bosh limitando il più possibile il numero degli esclusi (la prenotazione comunque non esclude nessuno, semmai ne ritarderà la visita senza lunghe ed estenuanti code).
Questo vale per molti altri luoghi d’arte dove dopo infinite code si passa davanti all’opera di corsa senza poterla ammirare come si dovrebbe (dalla Gioconda alla Capella Sistina solo per fare un esempio).
E’ inaccettabile che qualcuno voglia “venderci” una riproduzione spacciandola per un’esperienza alla pari dell’originale, è ancor più triste che ci sia qualcuno che considera questo scempio una trovata geniale.
Nelle immagini: Hieronymus Bosh (Jeroen Anthoniszoon van Aken) - Il giardino delle Delizie (il Millenio), 1480-90  cm. 220 x 389. Museo del Prado, Madrid
In alto intero, in basso particolare.




sabato 15 febbraio 2020

In cammino, William Eugene Smith


«Fotografare è porre sulla stessa linea di mira gli occhi, la mente e il cuore»
H. Cartier-Bresson

Questa fotografia di W.E.Smith, (realizzata nel 1946 e raffigura i figli del fotografo mentre camminano nel sottobosco del loro giardino) è “sentimento” allo stato puro, lo stesso fotografo statunitense sosteneva che a nulla serve una grande profondità di campo senza un’adeguata profondità di sentimento.

La qualità della macchina, il talento, l’ottimale condizione di luce sono inutili se nello scatto non è presente l’anima nella sua essenza.

Difficile pensare ad un semplice scatto fotografico, questa proiezione dell’ideale spirituale dell’artista va al di la della semplice “cattura” di un istante.

La nascita, la rinascita, l’abbandono del buio andando incontro alla luce, o semplicemente una delle tante “evoluzioni” del pensiero umano.

Quando l’immagine si fa poesia e permette all’osservatore un’interpretazione unica e personale allora possiamo dire senza ombra di dubbio che siamo al cospetto dell’arte nella sua forma più alta.


Nell'immagine: W. Eugene Smith - The walk to paradise garden



sabato 8 febbraio 2020

L'anima verde e la poesia del dono, Angela Lergo.


Autore:   Angela Lergo


Titolo dell’opera: I give you my heart

Tecnica: Scultura inserita in un’istallazione
Pietra macinata, resina, erba e cera

Dimensioni: Scultura 100 x 80 x 13 cm.
Le misure dell’istallazione sono variabili




Forse la presa di coscienza “ambientale” ci rende più attenti ad opere che richiamano la consapevolezza della ricerca fondamentale di una comunione sostenibile tra l’uomo e il pianeta che lo ospita.

L’opera dell’artista di Siviglia prende vita nell’immaginario collettivo, forse più attento alle tematiche ambientali, ma soprattutto per l’apparentemente semplice messaggio poetico.

Io do il mio cuore, il titolo è inequivocabile, l’interpretazione è però tutt’altro che scontata, donare il proprio cuore come estrema elevazione morale e spirituale o sacrificare se stessi per qualcosa di migliore?

Un corpo femminile si trova a metà strada tra la terra e il cielo, la figura sta emergendo o si sta inabissando?

La seconda ipotesi sembra più plausibile, il corpo inerme si abbandona alla madre terra e dal cuore spunta un’altra vita, o un’altra percezione vitale.


Il ciclo rigenerante sembra toccare il suo apice, non vi è sconfitta, finché siamo disposti a donare parte della nostra essenza continueremo ad esistere. 

sabato 1 febbraio 2020

L'eternità dell'arte, Giusto de Menabuoi

Autore:   Giusto de Menabuoi
(Firenze, 1330 ca. – Padova, 1390 ca.)

Titolo dell’opera: Veduta di Padova nel trecento– XIV secolo (1378?)


Tecnica: Affresco


Ubicazione attuale:  Basilica di Sant’Antonio, Padova




Quali affinità, quali contaminazioni, quante sfumature, spesso impercettibili, uniscono un (più o meno probabile) percorso artistico.

L’interpretazione lasciata all'intuizione, una lettura costruita dallo studio, tutto è possibile cosi come nulla è certo.

Giusto de Menabuoi nel trecento rappresenta la città di Padova in un affresco nella Basilica di Sant'Antonio nella stessa città veneta, quasi settecento anni dopo siamo ancora affascinati da un concetto stilistico che, nonostante le infinite congetture storico artistiche, rimane insondabile.

Cosi come continua a sfuggirci la capacità materiale e spirituale, di queste opere, di mantenersi profonde e pulsanti sfidando imperterrite le leggi del tempo.


Diamo per scontata la possibilità di poterle osservare nel XXI secolo ma di scontato non c’è nulla, resta la meraviglia di chi sa trovare il futuro nelle “proiezioni” passate.