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domenica 11 febbraio 2018

La dama senza pietà, Johan Keats.


Ballata romantica scritta da John Keats nel 1819.

La composizione ha tre protagonisti:
Il poeta che inizialmente si rivolge al cavaliere (secondo personaggio) che a sua volta "racconta" l'incontro con la figura femminile, la terza presenza, quella che da un senso e la conseguente svolta al poema.

Il tema della narrazione è strettamente “romantico”, l’armatura e l’atteggiamento “cavalleresco” evidenziano l’ambientazione medievale mentre l’aspetto del cavaliere stesso ed il lago visualizzato nella stagione autunnale richiamano un’atmosfera nefasta.

E’ infatti il cavaliere a presentare la dama dalla doppia natura, racconta della donna come di un incontro magico, misterioso, figlia delle fate ma che negli occhi si avverte la follia.

L’anonimo cavaliere viene travolto dalla passione che lo inebria e lo distrugge fino all’esito finale, si avvera il presagio di morte.

Il fulcro del poema è “io t’amo veramente” (altre traduzioni vertono su “io amo te solo”) frase che la dama pronuncia con estrema dolcezza ma che non nasconde l’essenza folle dei propri pensieri e con una luce selvaggia negli occhi, fondamentalmente non umana.

Un tema, quello cavalleresco in generale, questo in particolarmente, caro ai preraffaelliti, infatti molti pittori si sono cimentati nella scena dell’incontro tra la dama ed il cavaliere, tra gli altri vanno ricordati Waterhouse, forse il dipinto più noto, Crane, Hughes e Frank Dicksee (nell’immagine la sua opera: La belle dame sans merci, 1901 ca. Cm. 137 x 187.9 – Bristol City Museum and Art Gallery, Bristol)




La bella dama senza pietà  (La belle dame sans merci – John Keats)


Che cosa ti tormenta, armato cavaliere
che indugi solo e pallido?
Di già appassite son le cipree del lago
e non cantano gli uccelli.

Che cosa ti tormenta, armato cavaliere,
cotanto affranto e così desolato,
riempito è già il granaio dello scoiattolo,
pronto è il raccolto.

Vedo sul tuo cimiero un bianco giglio,
umida angoscia, e del pianto la febbre
sulle tue gote, ove il color di rosa è scolorito
troppo rapidamente.

Una signora in quei prati incontrai,
lei, tutta la bellezza di figlia delle fate aveva,
chiome assai lunghe, e leggeri i suoi piedi,
ma selvaggi i suoi occhi.

Io feci una ghirlanda pel suo capo,
e pur bracciali, e odorosa cintura;
lei mi guardò come se mi amasse,
dolcemente gemette.

Io mi stetti con lei, sul mio cavallo
al passo, e nessun altro vidi in tutto il giorno;
seduta su un fianco cantava
un canto delle fate.

Lei procurò per me grate radici,
vergine miele e rugiadosa manna,
e in linguaggio straniero poi mi disse:
- Io t'amo veramente.

Nella grotta degli elfi mi condusse,
e lì lei pianse, e sospirò in tristezza,
ma i suoi barbari occhi io tenni chiusi,
con quattro baci.

Ivi lei mi cullò, sino a dormire,
e lì sognai: sia maledetto l'ultimo sogno
fantasticato lì sul declivio
del freddo colle.

Vidi principi e re, pallidamente,
scialbi guerrieri smunti, color morte erano tutti
e gridavano a me: - La bella dama che non ha
compassione, t'ha reso schiavo!

Le lor livide labbra scorsi nella penombra,
che m'avvertivano: - L'ampia voragine orrendamente
s'apre! - Allora mi svegliai, e mi scopersi qui,
sopra il declivio del freddo colle.

Questo è accaduto perché qui rimasi
solo, senza uno scopo ad attardarmi,
pur se appassite fosser le cipree
e gli uccelli del lago non cantassero.

2 commenti:

  1. Molto bello ma anche troppo inquietante! Ciao, vado in vacanza....a risentirci al ritorno!

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    Risposte
    1. Ciao Marina, forse la bellezza di questo poema sta proprio nell'inquietudine che trasmette.
      Buone vacanze, a presto.

      Elimina

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